
L'intonaco bianco delle pareti del mio studio è irregolare. Lo vedo ogni volta che mi sdraio sulla poltrona testa in su.
Incredibile! La luce del sole percorre novantatré milioni di miglia solo per evidenziare un lavoro di intonacatura approssimativo.
Vicino a me, ci sono sei bar in totale e ognuno cerca di attirare gente con speciali ammiccamenti; le voci della gente che si diletta tra caffè e cornetti, mi arrivano a volte decise, a volte soffuse. Do un'occhiata fuori dalla porta, chiedendomi se quella gente lì si renda conto di scatenare onde sonore quando è evidente che il nostro pianeta si è allontanato abbastanza dal sole. Probabilmente non ci pensano.
Mi risiedo alla poltrona e riprendo il filo di ciò che stavo facendo. Mi infilo sotto la coltre di luce artificiale proveniente da un cerchio di 33 cm. Adoro questo cerchio, a dire il vero. Trasmette molto bene i miei pensieri quando trovo la combinazione di tasti corretta.
Ricordo la mia città di cinquanta anni fa, piccola ma impensabile una più grande. Camminare era accettabile, l'autobus sembrava un'occasione rara e l'auto non rientrava nemmeno nella lista.
Con il tempo, anche lo spazio si dilata. L'occhio si abitua alle distanze e quella che una volta era una passeggiata di venti minuti ora è una bella corsa in autobus.
L'area urbana è zona rossa, e quindi la gente aspetta il verde alle strisce pedonali, i visi appaiono assenti, assortiti nei loro pensieri.
Scelgo di sbadigliare. La luce sul muro si sposta a sinistra e si posa sulla metà superiore del mio viso, immergendomi nel suo splendido colore arancione radioso. Questo colore è raro, si trova solo nel cuore del deserto del Sahara e nel mio studio, perché il mio lato del locale è esposto al sole. Gli esseri umani, come ho imparato a capire, sono organismi alimentati a energia solare, il che è piacevolmente sostenibile.
Non apro libri da giorni. Forse è il momento di farci una passeggiata e passare il resto della giornata a osservare le ragnatele che si creano negli angoli inarrivabile della stanza. Non uccido mai un ragno, e loro lo sanno fin troppo bene. In cambio, non mi danno fastidio. Solo ogni tanto rotolano giù e mi chiedono di mostrare loro dov'è l'uscita.
Non sarebbe bello se i ragni indossassero un cappello? Potrebbero salutarmi. È così importante esprimere l'addio con un gesto, e un cappello sembra l'attributo perfetto per un arrivederci come si deve.
Tutto intorno a me è un territorio familiare. Posso camminare a piedi nudi e alla cieca e finire comunque nel posto che intendevo raggiungere. Ma i piccoli dettagli sono sempre fuori posto, e anche se ho imparato a lasciar perdere, mi danno fastidio.
Prendo una scatola e mi immergo nella sua profondità di cartone, lasciando fuori solo la testa, perché è così che ci dicono di pensare.
L'aria qui è diversa. Si ferma spesso per invitarmi a pensare.
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