mercoledì 13 agosto 2025

La mia aria è diversa

 

L'intonaco bianco delle pareti del mio studio è irregolare. Lo vedo ogni volta che mi sdraio sulla poltrona testa in su.

Incredibile! La luce del sole percorre novantatré milioni di miglia solo per evidenziare un lavoro di intonacatura approssimativo.

Vicino a me, ci sono sei bar in totale e ognuno cerca di attirare gente con speciali ammiccamenti; le voci della gente che si diletta tra caffè e cornetti, mi arrivano a volte decise, a volte soffuse. Do un'occhiata fuori dalla porta, chiedendomi se quella gente lì si renda conto di scatenare onde sonore quando è evidente che il nostro pianeta si è allontanato abbastanza dal sole. Probabilmente non ci pensano.

Mi risiedo alla poltrona e riprendo il filo di ciò che stavo facendo. Mi infilo sotto la coltre di luce artificiale proveniente da un cerchio di 33 cm. Adoro questo cerchio, a dire il vero. Trasmette molto bene i miei pensieri quando trovo la combinazione di tasti corretta.

Ricordo la mia città di cinquanta anni fa, piccola ma impensabile una più grande. Camminare era accettabile, l'autobus sembrava un'occasione rara e l'auto non rientrava nemmeno nella lista.

Con il tempo, anche lo spazio si dilata. L'occhio si abitua alle distanze e quella che una volta era una passeggiata di venti minuti ora è una bella corsa in autobus.

L'area urbana è zona rossa, e quindi la gente aspetta il verde alle strisce pedonali, i visi appaiono assenti, assortiti nei loro pensieri.

Scelgo di sbadigliare. La luce sul muro si sposta a sinistra e si posa sulla metà superiore del mio viso, immergendomi nel suo splendido colore arancione radioso. Questo colore è raro, si trova solo nel cuore del deserto del Sahara e nel mio studio, perché il mio lato del locale è esposto al sole. Gli esseri umani, come ho imparato a capire, sono organismi alimentati a energia solare, il che è piacevolmente sostenibile.

Non apro libri da giorni. Forse è il momento di farci una passeggiata e passare il resto della giornata a osservare le ragnatele che si creano negli angoli inarrivabile della stanza. Non uccido mai un ragno, e loro lo sanno fin troppo bene. In cambio, non mi danno fastidio. Solo ogni tanto rotolano giù e mi chiedono di mostrare loro dov'è l'uscita. 

Non sarebbe bello se i ragni indossassero un cappello? Potrebbero salutarmi. È così importante esprimere l'addio con un gesto, e un cappello sembra l'attributo perfetto per un arrivederci come si deve.

Tutto intorno a me è un territorio familiare. Posso camminare a piedi nudi e alla cieca e finire comunque nel posto che intendevo raggiungere. Ma i piccoli dettagli sono sempre fuori posto, e anche se ho imparato a lasciar perdere, mi danno fastidio. 

Prendo una scatola e mi immergo nella sua profondità di cartone, lasciando fuori solo la testa, perché è così che ci dicono di pensare.

L'aria qui è diversa. Si ferma spesso per invitarmi a pensare.

L'essenza di chi progetta

 

Prima di essere un progettista, sei un essere umano. Come ogni altro essere umano sul pianeta, fai parte del contratto sociale. Condividiamo un pianeta. Scegliendo un disegno, scegli di avere un impatto sulle persone che entrano in contatto con te: puoi aiutarle o danneggiarle con le tue azioni. L'effetto di ciò che metti nel tessuto della società dovrebbe sempre essere una considerazione chiave nel tuo lavoro.

Ogni essere umano su questo pianeta è obbligato a fare del proprio meglio per lasciare questo pianeta in condizioni migliori di come lo abbiamo trovato. I designer non possono rinunciare.

Quando svolgi un lavoro che dipende dalla necessità di colmare disparità di reddito o distinzioni di classe per avere successo, stai fallendo il tuo compito di cittadino e, di conseguenza, di designer.

Un progettista è responsabile del lavoro che mette nel mondo.

Il disegno diventa disciplina d'azione. Sei responsabile di ciò che metti nel mondo. Porta il tuo nome. E sebbene sia certamente impossibile prevedere come il tuo lavoro possa essere utilizzato, non dovrebbe sorprendere quando un'opera destinata a ferire qualcuno raggiunge il suo scopo. Non possiamo sorprenderci se un'arma da fuoco che abbiamo progettato uccide qualcuno. Non possiamo sorprenderci se una banca dati che abbiamo progettato per catalogare gli immigrati fa sì che quegli immigrati vengano deportati. Quando produciamo consapevolmente un'opera che ha lo scopo di nuocere, abdichiamo alla nostra responsabilità. Quando produciamo ignorantemente un'opera che danneggia gli altri perché non abbiamo considerato tutte le implicazioni di quell'opera, siamo doppiamente colpevoli.

L'opera che porti al mondo è la tua eredità. Ti sopravvivrà. E parlerà per te. Dobbiamo temere le conseguenze del nostro lavoro più di quanto amiamo l'ingegno delle nostre idee.

Un progetto non esiste nel vuoto. La società è il sistema più grande su cui possiamo avere un impatto e tutto ciò che facciamo è parte di quel sistema, nel bene e nel male. In definitiva, dobbiamo giudicare il valore del nostro lavoro in base a quell'impatto, piuttosto che a considerazioni estetiche.

Un oggetto progettato per danneggiare le persone non può essere definito ben progettato, per quanto esteticamente gradevole, perché progettarlo bene significa progettarlo per danneggiare gli altri.

Nulla di ciò che progetta un regime totalitario è ben progettato perché è stato progettato da un regime totalitario.

Quando vieni assunto per progettare qualcosa, vieni assunto per la tua competenza. Il tuo compito non è solo produrre quel lavoro, ma valutarne l'impatto. Il tuo compito è comunicare l'impatto di quel lavoro al tuo cliente o datore di lavoro. E se quell'impatto è negativo, è tuo compito comunicarlo al cliente, insieme a un modo, se possibile, per eliminarlo.

Se è impossibile eliminare l'impatto negativo del lavoro, è tuo compito impedirne la realizzazione. In altre parole, non sei assunto solo per scavare un fosso, ma per valutarne l'impatto economico, sociologico ed ecologico. Se il fosso non supera questi test, è tuo compito distruggere le pale.

Un progettista mette la propria competenza al servizio degli altri senza essere un servitore. Dire di no è un'abilità progettuale. Chiedersi perché è un'abilità progettuale. Alzare gli occhi al cielo non lo è. Chiedersi perché stiamo realizzando qualcosa è una domanda infinitamente migliore che chiedersi se siamo in grado di realizzarla.

Nessun codice etico dovrebbe proteggere il tuo lavoro dalle critiche, che provengano da clienti, pubblico o altri designer. Dovresti invece incoraggiare le critiche per creare lavori migliori in futuro. Se il tuo lavoro è così fragile da non resistere alle critiche, non dovrebbe esistere. Il momento di testare il tuo lavoro arriva prima che le gomme siano pronte per la strada. E sii aperto alle critiche che provengono da qualsiasi parte.

Il ruolo della critica, quando espressa in modo appropriato, è quello di valutare e migliorare il lavoro. La critica è un dono. Rende migliore un buon lavoro. Impedisce a un cattivo lavoro di vedere la luce del sole.

Le critiche dovrebbero essere richieste e ben accette in ogni fase del processo di progettazione. Non puoi aggiustare una torta una volta che è stata sfornata. Ma puoi aumentare le probabilità di successo del tuo progetto ricevendo critiche in anticipo e spesso ed è tua responsabilità favorirle.

martedì 12 agosto 2025

Nessuno è inutile al mondo

 

Attraversarono il bosco dopo una leggera pioggia settembrina. I rami scricchiolavano sotto le loro scarpe nonostante l'umidità, e le loro risate echeggiavano tra i tronchi delle querce e i sentieri dei cervi, riecheggiando una gioia che si ritrova più nei bambini che negli adulti.

Era sabato. Paolo seguiva suo padre lungo il ripido vialetto fino alla cassetta della posta nascosta dall'edera ai margini di un basso muro di mattoni, dipinto di bianco e ricoperto di soffice lichene.

Antonio, il padre di Paolo, Papà smistava le bollette e qualche lettera.

Risalivano il vialetto e il figlio si affannava per tenere il passo. I bambini di dieci anni lo fanno. Seguono i loro padri. Cercano di tenere il passo. Cercano di essere come loro.

Arrivarono al parcheggio sei metri sotto la porta d'ingresso quando Antonio si fermò.

"Senti?" disse.

Paolo alzò lo sguardo, confuso, ma poi sentii anche lui: risate e fruscii di cespugli appena oltre il limite degli alberi.

Un debole sorriso sfiorò il volto di Antonio.

"Fred? Sei tu?"

Il bosco rispose con un movimento. Due giovani uomini scesero dagli alberi, umidi e macchiati di foglie.

"Ciao Antonio!" disse quello più alto, porgendogli la mano.

"Ciao Fred, come stai?" rispose Antonio.

"Sto bene, Antonio. Questo è Tom. È mio amico. Andiamo a scuola insieme."

Tom si asciugò il naso con un guanto senza dita. "Ciao Antonio. Sono Tom, ma mia madre a volte mi chiama Tommy Furia."

"Tommy Furia!" esclamò Fred, scoppiando a ridere, coinvolgendo Tom nella risata.

Per un bambino di dieci anni, era strano vedere adulti che si comportavano come ragazzi.

Antonio non sembrò sorpreso. "Voi due volete una Coca-Cola e dei biscotti?"

"Sì, Antonio! Dai, Tom, facciamo uno spuntino!"

Tom fece un ampio sorriso. "Ok! Facciamo uno spuntino!"

Paolo guardò suo padre, perplesso. Ma lui, con una pacca sulla schiena, disse: "Dai, Paolo, andiamo a dare qualcosa da mangiare a questi uomini prima della loro lunga camminata verso casa."

Antonio tirò fuori dalla sacca Coca-Cola e i biscotti. Si sedettero su un grosso sasso che trasformarono in tavolo da picnic e iniziarono quel pasto improvvisato. 

Il sole emergeva da dietro le nuvole che si ritiravano. L'odore di terra bagnata riempiva l'aria.

Fred e Tom raccontarono storie di salamandre ed edera velenosa, cartoni animati e programmi TV. Antonio rideva con loro, mentre il figlio lo guardava.

Fred si arrampicò sul muro di contenimento che delimitava la loro area di sosta e dichiarò: "Possono ricostruirlo. Possono renderlo migliore di prima!"

Tom intervenne. "Migliore! Più forte! Più sicuro!"

Poi Fred saltò teatralmente sul prato. Tom applaudì.

Paolo lanciò un'occhiata al padre prima di unirsi all’euforia del gruppetto. I suoi occhi erano calmi. Non c'era giudizio in loro. Solo calore.

Rimasero seduti al sole del tramonto, sorseggiarono le bibite, sgranocchiarono biscotti e condivisero la strana magia di quel pomeriggio. Alla fine Antonio controllò l'orologio.

"Fred, non pensi che dovresti tornare a casa? Tua madre potrebbe essere preoccupata. Posso accompagnarvi entrambi."

"Oh, sì", disse Fred. "Hai ragione, Antonio."

Saltarono nella vecchia auto e si diressero verso la dimora di Fred. Giunti a casa, Antonio aprì loro la portiera. Fred lo abbracciò. Tom gli strinse la mano. 

"Grazie, Antonio", dissero entrambi.

Se ne andarono a braccetto. La madre di Fred salutò dalla porta gli amici dei suoi figli. Antonio ricambiò il saluto. Poi padre e figlio tornarono a casa.

"Sono due ragazzi speciali, Paolo", disse infine. 

"Non chiedono nulla, se non la compagnia di persone semplici e gioiose come loro. Vogliono soltanto essere trattati con gentilezza e dignità."

Nessuno è inutile al mondo, se alleggerisce i pesi di un altro.

lunedì 11 agosto 2025

Una orribile visione

 

Jack era un appassionato di astronomia. Era una passione che coltivava fin dagli anni del liceo. Nel tempo, nella mansarda della sua casa, si era costruito un personale laboratorio, un punto di osservazione del cielo notturno. Si era dotato di telescopio con il quale trascorreva molto tempo nell’osservare le meraviglie dell’universo.

Una notte fece una scoperta terribile. Fu un episodio da collocare tra la fantasia e una realtà assurda.

Mentre scrutava la Luna, improvvisamente Jack si allontanò dall'oculare del suo potente telescopio. Incredulo su ciò che gli sembrava di aver visto, continuò ad arretrare finché le natiche non urtarono il basso muro di protezione della sopraelevazione della mansarda.

Sicuramente, se avesse continuato ad arretrare e sarebbe caduto sul piano inferiore con gravi conseguenze.

Si lasciò cadere a terra e si strofinò gli occhi con forza. Lentamente, alzò lo sguardo, ammirando la luminosità della luna piena, un globo luminoso che gli era sembrato familiare pochi istanti prima, e ora gli sembrava stranamente minaccioso.

"Che cos’era?", si chiedeva Jack.

Eppure l'aveva visto. Un ometto orribile camminava sulla superficie lunare, ammucchiando una pila di pietre e danzandoci intorno con ferocia celebrativa.

L'intento selvaggio fu ulteriormente accentuato quando l'uomo si voltò verso la lente esplorativa del telescopio e puntò il dito dritto verso di lui.

Non credeva a ciò che aveva visto. Si domandava: “Anche se fosse vero ciò che ho visto, come avrebbe potuto vedere me?", gemette Jack. 

"Non poteva guardare da quella distanza senza un telescopio. È... è impossibile."

Tutto era impossibile. Nessun uomo poteva camminare sulla luna a viso scoperto e indossando solo jeans tagliati e scarpe da ginnastica.

Trascorse il tempo necessario affinché Jack potesse recuperare un po’ di razionalità, ma prima di riuscire a cancellare quella immagine dalla mente, si appisolò.

Sognò quella strana figura.

Al risveglio, ancora stranito, Jack tornò a guardare al telescopio.

L'orribile ometto salutò con la mano, sorridendo maliziosamente.

Jack svenne.

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