Sono viva per miracolo, ma non posso dichiarami fortunata perché ho pagato un prezzo troppo alto per continuare a respirare. Avrei preferito morire, ma se il destino ha voluto così, forse perché io potessi raccontare questa mia storia.
Avevo tra le braccia mia figlia di quattro anni e la stavo cullando. Fuori, nella strada, un drappello di tedeschi stavano perlustrando la zona in cerca di ebrei da ammazzare.
Non potevo far nulla tranne sentire urla, imprecazioni sempre più forti. A intervalli, si udivano rumori di violenza, orribili tonfi nel bagnato e l’inconfondibile eco di muscoli e tendini che resistevano alla forza di chi li stava lentamente facendo a pezzi.
Il massacro era iniziato tre giorni prima e sembrava non dover finire mai. Forse metà del mio mondo, ancor prima di avere notizie di quello che stava succedendo, spariva. Nessuno poteva fermare quella tritatrice di carne umana.
Abitavo al primo piano dello stabile che dava su quella strada, chiusa nel mio appartamento. A un certo punto, sentii bussare alla porta al piano di sotto e subito dopo si sentirono altre urla; la carneficina stava continuando con evidente impossibilità di montare una resistenza adeguata contro quella forza brutale. La minaccia mi era vicina. Speravo che si fermassero a quel piano, ma non fu così.
Non si attesi molto prima di riconoscere il rumore del martellamento e il saccheggiamento di ogni cosa. Il suono del legno in frantumi era il canto funebre prima di essere bruciati.
Ero sola in casa. Mi barricai con tutto quello che avevo nella stanza da letto. Mentre ammucchiavo mobili e suppellettili mi correvano i brividi per il corpo. Le cose che accatastai contro la porta d’ingresso mi davano l’illusione di essermi protetta, ma sapevo realisticamente che quei demoni sarebbero riusciti a passare.
Continuai a dondolare la mia bambina, canticchiando la ninna nanna nell’orecchio per calmarla mentre piangeva singhiozzando.
Il martellamento alla mia porta cresceva in forza e volume, il telaio iniziò a rompersi. Strinsi al petto la mia bambina e le accarezzai la testa con entrambe le mani, dalla parte superiore del cuoio capelluto, fino giù attraverso le orecchie, proprio come solitamente facevo per farla addormentare. A lei piaceva questo mio modo di tranquillizzarla. L’effetto fu immediato. Il suo pianto disperato si calmò, il suo piccolo corpo si avvinghiò contro il mio per nascondersi e attenuare la paura.
Continuai a canticchiare allisciandole i capelli. Provavo a comportarmi come se nulla fosse fuori posto, non una sola cosa che non andasse. Un ultimo singhiozzo e poi fece silenzio, il suo corpo si era rilassato.
Fu allora che avvolsi un cappio intorno al collo e con una stretta decisa e violenta uccisi il mio angelo. Morì prima ancora di poter crollare nel mio cinto. La porta stava cedendo, i mobili spinti indietro ed entrarono.
Attesi il mio destino mentre urlavo, ma almeno il mio piccolo angelo era al sicuro dal male.
Nessun commento:
Posta un commento
Esprimi il tuo pensiero