giovedì 14 agosto 2025

Corri finché non trovi un motivo per restare

 

"Vai."

"Corri e non tornare indietro."

La voce echeggiava nella testa di Lorenzo mentre si faceva strada attraverso la foresta moribonda, correndo il più velocemente possibile, ma non abbastanza.

Il suo respiro era affannoso mentre si muoveva sul terreno, cercando di non inciampare o cadere. Sentiva la stanchezza. Chissà per quanto tempo ancora avrebbe potuto resistere così.

Stava diventando freddo, il sole stava tramontando e presto sarebbe stato buio. Ma mentre il giovane guardava fuori, tutto ciò che vedeva erano alberi che si estendevano all'infinito a perdita d'occhio.

"Continua ad andare, nella notte", la voce continuò a incitarlo.

Lui voleva ascoltarla, ma il suo corpo iniziò a contrarsi e la mente cominciò a riconsiderare.

Era davvero questo che doveva fare?

Si chiedeva il motivo per cui scappava. Rallentò e poi si fermò completamente, per riprendere fiato.

Sapeva che non avrebbe dovuto farlo, ma decise comunque di guardare indietro da dove fuggiva. Era in lontananza, ma riusciva ancora a vederla attraverso tutti quegli alberi. Era casa sua, la sua baita.

Perché la stava lasciando? Valeva davvero la pena di tutta quella fatica?

Cominciò a immaginare il calore che proveniva dall'interno: il bel letto su cui dormire, insieme al riparo che offriva.

Perché scappava da tutto ciò, in questa foresta spietata?

Ci pensò a lungo e intensamente prima di fare il primo passo indietro.

"Non farlo", sentì quella voce opporsi alla sua decisione.

Lorenzo si fermò e sospirò. Ma poi fece il secondo passo, poi il terzo, poi il quarto, fino alla baita. Entrò, sollevato di essere tornato nel comfort della sua casa. Sentì immediatamente il calore dell'interno della casa e si chiese perché mai avesse cercato di andarsene. Era tutto ciò di cui aveva bisogno. Perché mai avrebbe dovuto essere così ingrato con sé stesso?

Quella notte dormì bene e così anche le tre notti successive. Tutto andava bene, era felice. Ma essere felici non dura, e quanto prima se ne rese conto; le cose non erano più le stesse.

Certo, era al caldo, era al sicuro, ma qualcosa... qualcosa mancava. Aveva tutto il necessario, ma non si spiegava quel senso di mancanza. 

Si chiedeva: “Dimmi perché questa casa non è abbastanza?

Nella baita, si sedette sul divano, battendo il piede. C'era silenzio, troppo silenzio. Perché non se ne era accorto prima? Dov'è il rumore che sembra riempire il vuoto? Non era lì. Lui ero da solo.

Si alzò e guardò fuori dalla finestra. L'unica vista che aveva era quella della foresta infinita intorno alla casetta.

Oltre la foresta, doveva esserci qualcosa? Qualcosa di meglio di questa baita. Ma perché dovrei desiderare qualcosa di meglio?” Così, si interrogava.

Pensava di avere tutto ciò di cui aveva bisogno. Pensava di avere tutto ciò che desiderava.

Continuò a fissare fuori dalla finestra, sempre più frustrato da queste domande senza risposta. Ma poi, risentì la voce.

"Vai, corri", gli disse.

Stringeva i pugni in trepidante attesa, sentendo il bisogno di obbedire a quella voce farsi più forte. Doveva correre, doveva andare.

Con una decisione improvvisa, si sentì in dovere di agire, schizzando fuori dalla porta.

Scese di corsa le scale del portico, pronto ad andare finalmente senza voltarsi indietro, ma poi si fermò quasi con la stessa rapidità con cui era partito.

Un po' di umidità sfiorò la sua testa, mentre guardava le nuvole sopra di lui. Di nuovo, un'altra goccia cadde e lo colpì in faccia. Pioveva.

Sembrava solo una pioggerellina leggera, ma cadeva sempre più forte con il passare dei secondi. Senza nemmeno sembrare, iniziò a scatenarsi un temporale, che scrosciava a dirotto.

Doveva correre sotto la piaggia? Sarebbe stato troppo pericoloso, troppo freddo, troppo umido. Dovette aspettare che passasse, così tornò al sicuro in casa sua e attese il momento di andarsene, quando il clima lo avesse permesso.

Ben presto, gli tornò in mente una delle cose che odiava di quella casa. C'erano sempre state queste tempeste, che duravano più del dovuto. Si placavano sempre nel giro di pochi giorni, ma questa era una delle cose che lo tormentava costantemente di questo posto.

Dopo alcuni giorni di attesa in casa, la tempesta continuava a infuriare, intensificandosi sempre di più. Il vento iniziò a rinforzarsi mentre l'insolito acquazzone portava un amico: Uragano. Sembrava che la tempesta stesse intensificandosi, il che, si sperava, significasse che sarebbe passata presto. Tuttavia, ogni giorno, mentre andava alla finestra per controllare fuori, notava che pioveva ancora.

Si ripeteva costantemente quanto questo posto fosse perfetto. Che avesse tutto ciò di cui aveva bisogno e che non ci fosse motivo per andarsene. Ma, lentamente, durante la tempesta, iniziò a ricordare tutti i motivi per cui quelle convinzioni non erano vere.

Il primo motivo era ovviamente che questi temporali innaturali e anomali duravano giorni. Il secondo motivo erano i buchi nel tetto che facevano infiltrare l'acqua in casa. Il terzo motivo era il fatto che non riusciva a sentire nulla di ciò che accadeva fuori.

Non capiva perché. Era una baita di legno, non una stanza insonorizzata. Tuttavia, la pioggia non dava alcun senso di angoscia, né il tuono si faceva sentire, solo una finestra su cui faceva affidamento per sapere se il maltempo era ancora in corso. E anche se a volte lo faceva sentire al sicuro, ciò non diminuiva il senso di vuoto dentro quella casa. Nessun rumore, solo un silenzio incerto.

Dalla finestra, guardò fuori, osservando un fulmine colpire un albero morto in lontananza. Di nuovo, nessun suono, solo un'immagine che gli faceva capire di essere al sicuro. Ma nonostante ciò, la voce continuava a sussurrargli:

"Lascia... lascia tutto alle spalle."

"Cosa?" chiese ad alta voce.

"Questo posto non ti fa bene... lascialo."

"Io... io non posso. Non è sicuro. Devo aspettare che la tempesta passi." Ribadì Lorenzo, con un po’ di agitazione.

"Ma la tempesta non passa mai. Torna solo quando torni tu."

Ci pensò per un secondo, ma non cambiò il suo punto di vista.

"Piove ancora in ogni caso. Qui è sicuro, sarò al sicuro."

La voce si fece più bassa, senza più parlare, mentre continuava a guardare fuori, ripetendo: "Passerà, passa sempre."

Passò una settimana, ma ancora nessun cambiamento. La violenza della tempesta iniziò a farsi sentire sulla baita. Le perdite iniziarono ad apparire ovunque, così tante che stavano finendo i secchi per raccogliere l'acqua. Oltre a ciò, la potenza del vento scagliò detriti contro la casa, che finirono per crepare una delle finestre. Non era nemmeno uscito per valutare eventuali danni esterni, ma sapeva che non sarebbe andata bene.

Si sedette sul divano e guardò di nuovo fuori dalla finestra. Non sentì nulla, ma vide tutto, e non era meglio di prima. Il vento continuava a soffiare senza sosta, mentre la pioggia rendeva il pavimento più fangoso di quanto mai fosse stato prima. La forza del vento era tale che persino alcuni alberi iniziarono a crollare per l'intensità.

"Corri, finché puoi", ripetette ancora la voce.

Sentiva la pressione del desiderio di farlo, pulsare contro il suo cuore, ma anche allora, sapeva di essere ancora al sicuro. Perché avrebbe dovuto abbandonare la sicurezza? Non gli sembrava giusto.

"Non è mai giusto. Ecco perché la tempesta è ancora qui", sentì di nuovo la voce.

Lorenzo non sapeva cosa rispondere, quindi continuò a riflettere.

"Devi correre..."

"Perché?" rispose bruscamente.

"Perché? Beh, perché sei corso la prima volta?" chiese la voce.

Si fermò a pensarci, realizzando il motivo.

"Avevo paura..." disse.

"Paura di quello che sarebbe successo se non l'avessi fatto."

"Allora perché non hai paura adesso?"

"Ho paura! Ma ho anche paura di quello che succederebbe se me ne andassi! Ho paura di non trovare un posto che possa proteggermi in questo modo. Ho paura di..." Si fermò.

Calò il silenzio mentre continuava a guardare l'esterno.

Poi iniziò a porsi domande: “Cosa dovevo fare? Lasciare questo posto nella speranza di qualcosa di meglio? Per paura che alla fine crollasse peggio di qualche perdita? Dovevo abbandonare la sicurezza per rischiare tutto? Era tutto ciò di cui avevo bisogno, giusto? È tutto ciò di cui ho bisogno?

"Se è tutto ciò di cui hai bisogno. Non sentiresti il bisogno di scappare", sussurrò la voce.

Si guardò intorno, verso il posto che chiamava casa. Era circondata da alberi morti e da una tempesta infinita che non finiva mai. La casa decadeva, e il calore che un tempo conosceva stava diventando freddo quanto l'esterno. Pensò a tutto ciò che avrebbe dovuto fare: rattoppare e riparare, sia dentro che fuori. Tutto questo, soltanto per vedere un'altra tempesta arrivare e per ritrovarla danneggiata ancora una volta. Questo era il posto che gli offriva casa?

"BOOM!" sentì forte il tuono fuori.

Era la prima volta che sentiva un suono diverso dalla sua voce. Lo fece sobbalzare e lo spinse a lottare o a fuggire mentre saltava giù dal divano. All'improvviso, i rumori del temporale iniziarono a farsi sentire tutti insieme. Il rumore della pioggia si abbatteva pesantemente sulla baita, quasi insopportabile da ascoltare. E il vento, da fuori, fischiava attraverso le finestre come se stesse per sfondarle.

Si sentì pervadere dalla paura mentre un altro crepitio di tuono faceva "BOOM!" proprio fuori dalla casa. Si guardò intorno in preda al panico mentre quel rumore insolito rese udibile di nuovo la voce.

"Corri! Corri e non voltarti indietro! Vai!" urlò.

E prima che se ne rendesse conto, finalmente provò la paura che doveva averlo spinto fuori prima. Non ebbe tempo di aspettare, perché corse fuori dalla porta il più velocemente possibile.

Fuori era ancora più rumoroso e caotico, ma era spinto dall'adrenalina e non aveva tempo per pensare; si lanciò nella foresta di un milione di alberi morti.

La pioggia lo inzuppò completamente in un batter d'occhio, mentre il vento scagliava detriti dappertutto. Dovette coprirsi il viso per poter vedere attraverso la tempesta e non inciampare in alberi caduti o altri ostacoli.

Il tuono scosse la terra sotto di lui, mentre un fulmine colpiva un albero proprio accanto. Trasalì e cadde nel fango, e la voce parlò di nuovo.

"Alzati! Devi continuare ad andare!"

Si alzò e continuò ad avanzare a fatica nella foresta. Doveva trovare sicurezza. Ma non più la sicurezza che si era lasciato alle spalle. Doveva continuare a muoversi – muoversi finché non fosse riuscito a uscire dalla tempesta, che un tempo era la sua casa. Doveva continuare a correre - correre finché non avesse trovato un motivo per restare.

 

mercoledì 13 agosto 2025

La mia aria è diversa

 

L'intonaco bianco delle pareti del mio studio è irregolare. Lo vedo ogni volta che mi sdraio sulla poltrona testa in su.

Incredibile! La luce del sole percorre novantatré milioni di miglia solo per evidenziare un lavoro di intonacatura approssimativo.

Vicino a me, ci sono sei bar in totale e ognuno cerca di attirare gente con speciali ammiccamenti; le voci della gente che si diletta tra caffè e cornetti, mi arrivano a volte decise, a volte soffuse. Do un'occhiata fuori dalla porta, chiedendomi se quella gente lì si renda conto di scatenare onde sonore quando è evidente che il nostro pianeta si è allontanato abbastanza dal sole. Probabilmente non ci pensano.

Mi risiedo alla poltrona e riprendo il filo di ciò che stavo facendo. Mi infilo sotto la coltre di luce artificiale proveniente da un cerchio di 33 cm. Adoro questo cerchio, a dire il vero. Trasmette molto bene i miei pensieri quando trovo la combinazione di tasti corretta.

Ricordo la mia città di cinquanta anni fa, piccola ma impensabile una più grande. Camminare era accettabile, l'autobus sembrava un'occasione rara e l'auto non rientrava nemmeno nella lista.

Con il tempo, anche lo spazio si dilata. L'occhio si abitua alle distanze e quella che una volta era una passeggiata di venti minuti ora è una bella corsa in autobus.

L'area urbana è zona rossa, e quindi la gente aspetta il verde alle strisce pedonali, i visi appaiono assenti, assortiti nei loro pensieri.

Scelgo di sbadigliare. La luce sul muro si sposta a sinistra e si posa sulla metà superiore del mio viso, immergendomi nel suo splendido colore arancione radioso. Questo colore è raro, si trova solo nel cuore del deserto del Sahara e nel mio studio, perché il mio lato del locale è esposto al sole. Gli esseri umani, come ho imparato a capire, sono organismi alimentati a energia solare, il che è piacevolmente sostenibile.

Non apro libri da giorni. Forse è il momento di farci una passeggiata e passare il resto della giornata a osservare le ragnatele che si creano negli angoli inarrivabile della stanza. Non uccido mai un ragno, e loro lo sanno fin troppo bene. In cambio, non mi danno fastidio. Solo ogni tanto rotolano giù e mi chiedono di mostrare loro dov'è l'uscita. 

Non sarebbe bello se i ragni indossassero un cappello? Potrebbero salutarmi. È così importante esprimere l'addio con un gesto, e un cappello sembra l'attributo perfetto per un arrivederci come si deve.

Tutto intorno a me è un territorio familiare. Posso camminare a piedi nudi e alla cieca e finire comunque nel posto che intendevo raggiungere. Ma i piccoli dettagli sono sempre fuori posto, e anche se ho imparato a lasciar perdere, mi danno fastidio. 

Prendo una scatola e mi immergo nella sua profondità di cartone, lasciando fuori solo la testa, perché è così che ci dicono di pensare.

L'aria qui è diversa. Si ferma spesso per invitarmi a pensare.

L'essenza di chi progetta

 

Prima di essere un progettista, sei un essere umano. Come ogni altro essere umano sul pianeta, fai parte del contratto sociale. Condividiamo un pianeta. Scegliendo un disegno, scegli di avere un impatto sulle persone che entrano in contatto con te: puoi aiutarle o danneggiarle con le tue azioni. L'effetto di ciò che metti nel tessuto della società dovrebbe sempre essere una considerazione chiave nel tuo lavoro.

Ogni essere umano su questo pianeta è obbligato a fare del proprio meglio per lasciare questo pianeta in condizioni migliori di come lo abbiamo trovato. I designer non possono rinunciare.

Quando svolgi un lavoro che dipende dalla necessità di colmare disparità di reddito o distinzioni di classe per avere successo, stai fallendo il tuo compito di cittadino e, di conseguenza, di designer.

Un progettista è responsabile del lavoro che mette nel mondo.

Il disegno diventa disciplina d'azione. Sei responsabile di ciò che metti nel mondo. Porta il tuo nome. E sebbene sia certamente impossibile prevedere come il tuo lavoro possa essere utilizzato, non dovrebbe sorprendere quando un'opera destinata a ferire qualcuno raggiunge il suo scopo. Non possiamo sorprenderci se un'arma da fuoco che abbiamo progettato uccide qualcuno. Non possiamo sorprenderci se una banca dati che abbiamo progettato per catalogare gli immigrati fa sì che quegli immigrati vengano deportati. Quando produciamo consapevolmente un'opera che ha lo scopo di nuocere, abdichiamo alla nostra responsabilità. Quando produciamo ignorantemente un'opera che danneggia gli altri perché non abbiamo considerato tutte le implicazioni di quell'opera, siamo doppiamente colpevoli.

L'opera che porti al mondo è la tua eredità. Ti sopravvivrà. E parlerà per te. Dobbiamo temere le conseguenze del nostro lavoro più di quanto amiamo l'ingegno delle nostre idee.

Un progetto non esiste nel vuoto. La società è il sistema più grande su cui possiamo avere un impatto e tutto ciò che facciamo è parte di quel sistema, nel bene e nel male. In definitiva, dobbiamo giudicare il valore del nostro lavoro in base a quell'impatto, piuttosto che a considerazioni estetiche.

Un oggetto progettato per danneggiare le persone non può essere definito ben progettato, per quanto esteticamente gradevole, perché progettarlo bene significa progettarlo per danneggiare gli altri.

Nulla di ciò che progetta un regime totalitario è ben progettato perché è stato progettato da un regime totalitario.

Quando vieni assunto per progettare qualcosa, vieni assunto per la tua competenza. Il tuo compito non è solo produrre quel lavoro, ma valutarne l'impatto. Il tuo compito è comunicare l'impatto di quel lavoro al tuo cliente o datore di lavoro. E se quell'impatto è negativo, è tuo compito comunicarlo al cliente, insieme a un modo, se possibile, per eliminarlo.

Se è impossibile eliminare l'impatto negativo del lavoro, è tuo compito impedirne la realizzazione. In altre parole, non sei assunto solo per scavare un fosso, ma per valutarne l'impatto economico, sociologico ed ecologico. Se il fosso non supera questi test, è tuo compito distruggere le pale.

Un progettista mette la propria competenza al servizio degli altri senza essere un servitore. Dire di no è un'abilità progettuale. Chiedersi perché è un'abilità progettuale. Alzare gli occhi al cielo non lo è. Chiedersi perché stiamo realizzando qualcosa è una domanda infinitamente migliore che chiedersi se siamo in grado di realizzarla.

Nessun codice etico dovrebbe proteggere il tuo lavoro dalle critiche, che provengano da clienti, pubblico o altri designer. Dovresti invece incoraggiare le critiche per creare lavori migliori in futuro. Se il tuo lavoro è così fragile da non resistere alle critiche, non dovrebbe esistere. Il momento di testare il tuo lavoro arriva prima che le gomme siano pronte per la strada. E sii aperto alle critiche che provengono da qualsiasi parte.

Il ruolo della critica, quando espressa in modo appropriato, è quello di valutare e migliorare il lavoro. La critica è un dono. Rende migliore un buon lavoro. Impedisce a un cattivo lavoro di vedere la luce del sole.

Le critiche dovrebbero essere richieste e ben accette in ogni fase del processo di progettazione. Non puoi aggiustare una torta una volta che è stata sfornata. Ma puoi aumentare le probabilità di successo del tuo progetto ricevendo critiche in anticipo e spesso ed è tua responsabilità favorirle.

martedì 12 agosto 2025

Nessuno è inutile al mondo

 

Attraversarono il bosco dopo una leggera pioggia settembrina. I rami scricchiolavano sotto le loro scarpe nonostante l'umidità, e le loro risate echeggiavano tra i tronchi delle querce e i sentieri dei cervi, riecheggiando una gioia che si ritrova più nei bambini che negli adulti.

Era sabato. Paolo seguiva suo padre lungo il ripido vialetto fino alla cassetta della posta nascosta dall'edera ai margini di un basso muro di mattoni, dipinto di bianco e ricoperto di soffice lichene.

Antonio, il padre di Paolo, Papà smistava le bollette e qualche lettera.

Risalivano il vialetto e il figlio si affannava per tenere il passo. I bambini di dieci anni lo fanno. Seguono i loro padri. Cercano di tenere il passo. Cercano di essere come loro.

Arrivarono al parcheggio sei metri sotto la porta d'ingresso quando Antonio si fermò.

"Senti?" disse.

Paolo alzò lo sguardo, confuso, ma poi sentii anche lui: risate e fruscii di cespugli appena oltre il limite degli alberi.

Un debole sorriso sfiorò il volto di Antonio.

"Fred? Sei tu?"

Il bosco rispose con un movimento. Due giovani uomini scesero dagli alberi, umidi e macchiati di foglie.

"Ciao Antonio!" disse quello più alto, porgendogli la mano.

"Ciao Fred, come stai?" rispose Antonio.

"Sto bene, Antonio. Questo è Tom. È mio amico. Andiamo a scuola insieme."

Tom si asciugò il naso con un guanto senza dita. "Ciao Antonio. Sono Tom, ma mia madre a volte mi chiama Tommy Furia."

"Tommy Furia!" esclamò Fred, scoppiando a ridere, coinvolgendo Tom nella risata.

Per un bambino di dieci anni, era strano vedere adulti che si comportavano come ragazzi.

Antonio non sembrò sorpreso. "Voi due volete una Coca-Cola e dei biscotti?"

"Sì, Antonio! Dai, Tom, facciamo uno spuntino!"

Tom fece un ampio sorriso. "Ok! Facciamo uno spuntino!"

Paolo guardò suo padre, perplesso. Ma lui, con una pacca sulla schiena, disse: "Dai, Paolo, andiamo a dare qualcosa da mangiare a questi uomini prima della loro lunga camminata verso casa."

Antonio tirò fuori dalla sacca Coca-Cola e i biscotti. Si sedettero su un grosso sasso che trasformarono in tavolo da picnic e iniziarono quel pasto improvvisato. 

Il sole emergeva da dietro le nuvole che si ritiravano. L'odore di terra bagnata riempiva l'aria.

Fred e Tom raccontarono storie di salamandre ed edera velenosa, cartoni animati e programmi TV. Antonio rideva con loro, mentre il figlio lo guardava.

Fred si arrampicò sul muro di contenimento che delimitava la loro area di sosta e dichiarò: "Possono ricostruirlo. Possono renderlo migliore di prima!"

Tom intervenne. "Migliore! Più forte! Più sicuro!"

Poi Fred saltò teatralmente sul prato. Tom applaudì.

Paolo lanciò un'occhiata al padre prima di unirsi all’euforia del gruppetto. I suoi occhi erano calmi. Non c'era giudizio in loro. Solo calore.

Rimasero seduti al sole del tramonto, sorseggiarono le bibite, sgranocchiarono biscotti e condivisero la strana magia di quel pomeriggio. Alla fine Antonio controllò l'orologio.

"Fred, non pensi che dovresti tornare a casa? Tua madre potrebbe essere preoccupata. Posso accompagnarvi entrambi."

"Oh, sì", disse Fred. "Hai ragione, Antonio."

Saltarono nella vecchia auto e si diressero verso la dimora di Fred. Giunti a casa, Antonio aprì loro la portiera. Fred lo abbracciò. Tom gli strinse la mano. 

"Grazie, Antonio", dissero entrambi.

Se ne andarono a braccetto. La madre di Fred salutò dalla porta gli amici dei suoi figli. Antonio ricambiò il saluto. Poi padre e figlio tornarono a casa.

"Sono due ragazzi speciali, Paolo", disse infine. 

"Non chiedono nulla, se non la compagnia di persone semplici e gioiose come loro. Vogliono soltanto essere trattati con gentilezza e dignità."

Nessuno è inutile al mondo, se alleggerisce i pesi di un altro.

Post più letti nell'ultimo anno