martedì 10 giugno 2025

Liberi di Fiorire

 

Alcune persone non vogliono solo esistere, vogliono diventare.

Desiderano profondità, slancio, padronanza.

Non sono spinte dalla competizione o dagli applausi, ma da una spinta interiore: il bisogno di crescere, imparare, evolvere.

Queste persone sono mosse dalla filosofia "Liberi di Fiorire".

Non è una fuga, non una ribellione,

ma un profondo impegno a proteggere la propria forza vitale; una volontà a esprimersi in piena libertà di esistere.

Fiorire significa onorare le stagioni dentro di sé; godere del fascino di rinnovarsi continuamente.

Andare avanti, anche quando sarebbe più facile e comodo restare fermi.

Percepire che la propria vita ha una direzione e sceglierla deliberatamente, indipendentemente da ciò che gli altri pensano o si aspettano da te.

Liberi di Fiorire significa nutrire quel movimento; sentire aria nuova dentro di sé.

Si tratta di progettare una vita che alimenti la crescita anziché frammentarla o disperderla in attese illusorie.

Una vita in cui pensieri, azioni, relazioni e lavoro si allineano attorno al proprio divenire.

Non si tratta di raggiungere la perfezione.

Neanche di ottimizzare la performance lavorativa.

Ma di tendere a un dispiegamento continuo e consapevole del tuo essere.

Non è tutto ciò che si muove conduce alla crescita. Ciò significa scegliere di essere ancor prima di apparire.

Viviamo in un'epoca in cui l'essere indaffarati viene scambiato per vitalità.

Ma l'anima conosce la differenza.

La vera crescita non è caotica; è ritmica.

Non si esaurisce, si approfondisce.

Occorre meno rumore, meno fretta, meno distrazioni dispersive.

Più chiarezza. Più silenzio. Più scelta.

Perché l'energia è sacra. 

E l'attenzione è potere!

lunedì 9 giugno 2025

Una tenera amicizia

 

Nella mia lunga esperienza di insegnante in un istituto tecnico del triennio di specializzazione in informatica, giunse l’anno in cui per la prima volta mi fu affidata una prima classe. Quello era l’anno che precedeva il mio pensionamento. Non ero abituato a rapportarmi con allievi così piccoli, provenienti dalle scuole medie inferiori. Sentivo un senso di inadeguatezza considerando bambini coloro a cui dovevo trasferire i primi elementi del tecnicismo.

Il primo giorno mi presentai in aula, ci fu un silenzio tombale. Ventisei visi rivolti verso di me erano in attesa delle mie parole: ero il loro professore di informatica! Probabilmente, vedevano in me l’universo dei computer.

Ormai i telefonini e i personal computer presenti nelle loro case avevano già anticipato l’idea di ciò che dovevano imparare.

Ero curioso di sapere che cosa si aspettavano di studiare. Rivolsi la domanda alla classe, orientandomi verso quelli che più di tutti mostravano interesse alle mie parole. 

In particolare, scelsi un ragazzo che si sollevava dalla sedia dando la sensazione di voler intervenire prima degli altri.

“Dimmi, che cosa è per te l’informatica?”

“Credo che sia la materia che ci permetterà di imparare come usare il computer.” Rispose, Enrico, dando quasi per scontata la risposta.

Subito dopo si alzarono molte mani in segno di voler intervenire per dare il loro contributo.

Il più vivace, Paolo, intervenne senza autorizzazione per chiarire che Enrico era un esperto; aveva già avuto modo di riparare un computer e di conoscere parecchi trucchi sul suo funzionamento. Tra gli amici provenienti dalla stessa scuola media, Enrico era noto come “genio del computer” ed era questo il motivo che lo aveva condotto in questa scuola.

Mi complimentai con lui e subito dopo diedi parola ad un bimbo dall’età apparente molto più bassa dei quattordici anni.

“Professore – mi chiese – studieremo i robot, i droni?  Impareremo a farli muovere?” Sorrisi a questo intervento e per non deludere l’alunno perspicace. Lo invitai alla cautela per i grandi propositi, facendogli capire che lo studio ha bisogno dei suoi tempi per affrontare problematiche complesse.

Sulla mia sinistra, sedeva silenziosa un’esile ragazza che occupava un banco affiancato a quello di una sua compagna. Capii che le due ragazze erano molto amiche e che volutamente avevano scelto di stare vicino. Le vedevo spesso parlarsi sottovoce.

Qualche mese dopo ebbi modo di conoscerle meglio. Laura era intelligentissima, educatissima e aveva a cuore la condizione di Rosanna che non aveva le grandi doti di predisposizione allo studio. Però, confidava nel sostegno della sua amica Laura per superare le eventuali difficoltà.

Durante le mie lezioni ero solito svolgere lentamente esercizi molto simili tra loro e a difficoltà crescente. Il mio intento era di cercare di essere anticipato nella risoluzione da allievi che avevano già intuito il metodo risolutivo. 

Appena capitava che uno di loro completava l’esercizio prima di me, lo chiamavo alla lavagna per proseguire lo sviluppo. Il mio compenso consisteva in un immediato riconoscimento di buon profitto attraverso un buon voto registrato sulla piattaforma scolastica con cui il dato giungeva in tempo reale alla famiglia.

Laura più volte ebbe questo riconoscimento. In una occasione, però, restai stupefatto per il fatto che Rosanna avesse per la prima volta finito l’esercizio prima di tutti i compagni di classe. 

Nonostante non avessi creduto fino ad allora alle buone potenzialità della ragazza, registrai con piacere il bel voto sulla sua scheda di profitto. Avevo comunque il sospetto che qualcosa di insolito fosse successo. 

Al termine dell’ora di lezione visionai il quaderno di informatica di Laura: erano riportati tutti gli esercizi svolti durante la lezione … tranne uno: quello che Rosanna aveva finito prima di tutti gli altri. 

Mi resi conto dell’atto di generosità della ragazza nei confronti dell’amica e feci finta di nulla. Consegnai il quaderno a Laura e la elogiai per la puntuale attenzione mostrata durante la lezione. Nei mesi successivi Rosanna mostrò un interesse crescente durante le mie lezioni e il suo profitto migliorò notevolmente. 

Quello fu l'ultimo miracolo che mi giunse prima del pensionamento. 

domenica 8 giugno 2025

Il paradosso della fede (Kierkegaard)



Sono molteplici le esperienze che possono indurre l'uomo a perdere il senso della propria esistenza. L'esperienza di una vita che promette e poi non mantiene è irrimediabilmente segnata dalla precarietà, dall’instabilità. Eppure, la vita non vuole essere preceduta da nulla, perché non ha bisogno di nulla. La vita è quella che è. 

Siamo noi, il problema vivente. E senza sapere dove andiamo, ci muoviamo nell’attesa che il 'buon vento' faccia di noi la miglior soluzione esistente. La vita in sé segue un solo tono. Si espleta sotto il segno di una variegata estensione di forme viventi. E il suo dinamismo naturale è visibilmente ciclico e costante. E’ l’uomo a essere incostante, inadattabile innanzi a delle ‘possibilità’ che in lui accadono. 

La possibilità è il luogo della sua libertà, della sua esistenziale ‘condanna dolceamara’. Tutto ciò non è nient'altro che la sua esistenza, che lo attraversa, lo trafigge e lo conduce al divenire delle sue possibilità. Si tratta di un esistere che non appartiene alla dimensione concettuale, ma è un fatto propriamente singolare. L’esistenza è un fatto singolare: una singolarità che va definendosi in una ricerca inesauribile e irrimediabile di stati di indeterminabiltà.

Scrive il sacerdote e teologo Bruno Maggioni (Rovellasca, 1932): “La vita afferma, da una parte, una netta gerarchia di valori, ma poi, dall'altra, sembra non rispettarla. L'uomo ha sete del definitivo, ma deve poi accontentarsi di ciò che è relativo. Desidera ciò che è aperto e sicuro, ma deve accontentarsi dell'incerto e del provvisorio. Il suo desiderio è aperto, infinito, mentre la realtà dell'esistenza è quella che è, inferiore”. 

Ecco che la fatica del vivere appare come un affannarsi inconcludente. La salvezza dell'uomo è dunque nelle sue mani. Ma fino a che punto? E dal momento che non viene sottratto alle sue responsabilità, egli deve compiere una scelta: la scelta della sua vita. Scegliere implica l’alternativa, la rinuncia; un'aderenza morale e l’assunzione di una certa condotta. E l’intera responsabilità ricade su di lui. Una grande responsabilità questa, da assumere senza rinvii, perché gli errori o i danni non sono sempre rimediabili. Le alternative possibili, generate dalla scelta, non sempre si conciliano nella continuità di un processo di sintesi dialettica. Dunque, vi è sempre una componente irrazionale che incide enormemente sul rapporto intimo e profondo di chi sceglie. In un mio precedente saggio, intitolato 'L'altrove della mancanza nelle relazioni di esistenza' (Bibliotheka, 2017), scrivo: "Le scelte sono assunzioni di responsabilità che si manifestano in ogni situazione, anche in quelle che appaiono più lontane dalla nostra portata. […] E la possibilità è la più pesante di tutte le categorie. L’uomo si rende conto di essere un aspetto momentaneo della sua vita e scopre l’assurdità nella propria impresa di progettare sempre nuovi schemi e significati, destinati, in qualche modo, ad essere superati in una corsa senza fine".
La scelta mette a nudo l'uomo, lo lascia in bilico fra l'essere e il nulla. Per Søren Kierkegaard (Copenaghen 1813-1855), filosofo danese, la sua filosofia è essenzialmente ricerca vitale; modalità essenziale che investe direttamente l'esistenza dell’uomo. Infatti, il filosofo mostra, attraverso i suoi scritti, come, innanzi all'uomo, si aprano possibilità di scelta. 

Ma chi è il singolo? Il singolo, per Kierkegaard, è la categoria essenziale attraverso cui passa il tempo, la Storia e la stessa vita. Il singolo è, oltretutto, l’uomo esposto all'imprevedibilità, alla sua libertà, esposto in ogni istante al rischio della sua scelta. Nulla viene garantito da logiche prestabilite e necessarie. L'uomo è decaduto dall'eden dell'autenticità. Egli è già da tempo nel peccato, macchiato, inquinato e segnato dal peso delle sue responsabilità.

E, contrariamente a tutto ciò che si era già precedentemente istituito con Hegel, egli è stato rovesciato: l'uomo non è più un puro accadere irrilevante, ma è “l'accadere” per eccellenza, la prima scelta. "Nasciamo, viviamo moriamo da soli", scrive Osho (Kuchwada, 1931-Pune, 1990). Il destino dell’uomo è nel suo destinarsi a sé stesso, al suo dover e poter essere. È anche vero che la vita dell'uomo non si riduce alla mera dimensione intima e personale. L'esperienza della vita avviene in compagnia, o con forme di accomunamento. Nella vita occorre saper scegliere, bisogna fronteggiare il peso della scelta e delle responsabilità. Socializziamo, condividiamo rapporti di reciprocità, ma, a un ceSoren_Kierkegaard.jpgrto momento, sentiamo che alla base del rapporti interpersonali vi è solitudine, angoscia e disperazione. E se la solitudine genera la sagoma perfetta della morte, l'angoscia è la vertigine che sperimentiamo innanzi a noi stessi, innanzi all'esistere, innanzi alle conseguenze del nostro puro accadere. Angosciandoci, non siamo in grado di definire nulla in rapporto al mondo e a Dio. Ed è il nulla che (ci) tormenta. Il nulla, a questo punto, è, diventa; diventa l’essere di riguardo a cui prestare attenzione. Ad avviso del filosofo di Copenaghen, ogni uomo, ogni individuo, deve attraversare queste condizioni: l'angoscia e la disperazione. L’angoscia è la spia della libertà dell’uomo. Ed è la medesima libertà che genera il nulla. La libertà non è solamente qualcosa di positivo. Essa ha un volto ingannevole, terribile. E il singolo, in quanto libero, può scegliere il bene o cadere nel male. Scrive Kierkegaard: "L'imparare a sentire l'angoscia è un'avventura attraverso la quale deve passare ogni uomo, affinché non vada in perdizione, o per non essere mai stato in angoscia o per essersi immerso in essa; chi invece imparò a sentire l'angoscia nel modo giusto, ha imparato la cosa più alta".
L'uomo è la sua libertà, dunque, la sua angoscia, la sua scelta. La scelta è il connotato tipico dell'uomo che vuole essere, vuole realizzarsi. "E le persone, singole – ricorda la pedagogista Kasia Marciszuk (Hrubieszów, 1971) – sono responsabili della qualità della vita, […] di quella vita che vuole nascere, vuole esistere e che non esiste ancora". 

L'esperienza dell'angoscia, sulla base delle parole del filosofo danese, non è poi così male: sotto il profilo umano rappresenta l'indispensabile crogiolo in cui i nostri modi di essere, i nostri caratteri perdono certe spigolosità o durezze, per acquisire volti concreti e reali. In questa logica, l'angoscia consente di tendere un ponte tra l'io, se stesso e  il mondo nell'esperienza delle responsabilità verso i possibili. L'esperienza delle responsabilità verso i possibili è un fatto stra-ordinario di cui l'uomo non può sottrarsi se vuole conservare o tentare il 'salto' nella direzione del senso della sua dignità e della sua umanità. 

A tal proposito, la studiosa Paola Binetti (Roma, 1943), all'interno di un volume collettivo, riporta queste parole: "Il lungo itinerario dell'uomo che ogni uomo deve percorrere per raggiungere la piena maturità presenta spesso delle tappe caratterizzate da una intensa esperienza di dolore e di sofferenza, che non possono essere evitate. All'iniziale tentativo di fuggire davanti a questi incontri, che suscitano una naturale repulsione, la riflessione personale può far cogliere nuovi significati e far subentrare la consapevolezza di valori più profondi su cui fondare la nostra vita".
La riflessione personale 'può', infatti, favorire e permettere nuovi significati dinanzi alla sofferenza dello spirito. Ma l'obiettivo di Kierkegaard è quello di voler focalizzare l'attenzione sul carattere negativo e paralizzante della possibilità come tale. La possibilità destabilizza, scombussola, altera, divide, angoscia e dispera. La possibilità genera, alla luce della sua teologia esistenziale, una malattia. Non si tratta di una condizione patologica da cui è importante guarire. E' il male dello spirito. E solamente chi si è ammalato di questo male, proprio mediante la sofferenza e la disperazione, perviene al senso autentico del proprio esistere, del proprio essere in rapporto con se stesso. In altre parole, la malattia, questa, propria dell’uomo finito, dello spirito, dell’io, diventa un passaggio funzionale, la sintesi perfetta di un rapporto personale tra il finito e l’infinito, tra il tempo e l’eterno, tra la possibilità e la necessità. La malattia è, tuttavia, mortale: Kierkegaad lo chiarirà molto bene nel libro del 1848, 'Sygdommen til Døden. En christelig psychologisk Udvikling til Opbyggelse og Opvækkelse' (La malattia mortale, ndr). La malattia è mortale non perché porta all'annientamento dell'io; ma, al contrario, lo perfeziona paradossalmente nella finitezza; rende, ancora, paradossalmente, l'io cosciente della incapacità di sperimentare la sua precarietà, il suo conflitto interiore, la sua morte spirituale; incapace, tutt'al più, di permanere nella “singolarità” dinanzi al possibile di se stesso. Ecco che, incapace di resistere agli spasmi della malattia, l'unica soluzione è aggrapparsi a Dio. Dunque, passare dalla propria disperazione a Dio significa compiere un balzo nell'irrazionale, un passaggio senza mediazioni. Il passaggio compiuto è assurdo, scandaloso, ad avviso di Kierkegaard. L'atto è inaccettabile dalla ragione. Questo è un fatto paradossale nel momento in cui l'io, aggrappandosi a Dio, consegna integralmente se stesso. 

Il filosofo Cornelio Fabro (Talmassons, 1911 – Roma, 1995), scrive: "L'atto di fede invece implica una rottura una rottura totale con la razionalità dell'immediato ed esige il passaggio ad una sfera ch'è assolutamente incommensurabile con quella dell'uomo naturale, fosse anche il più grande genio. L'atto di fede perciò comporta un 'salto' (Spring) che trasporta l'uomo in una sfera dove i criteri d'un mondo limitato perdono ogni valore, anzi dove questi criteri risultano negati. Infatti l'oggetto della fede, la rivelazione di Dio all'uomo, è per la ragione umana l'assurdo, il paradosso, l'incomprensibile".
La fede, tuttavia, non risolve il problema dell’instabilità radicale dell’esistenza costituita dal possibile. La fede non dice che l’uomo debba essere privato del peso della scelta. L’uomo, resta l’unico ente che deve ad ogni modo scegliere/scegliersi in ragione della sua libertà. Perciò la fede è e resta un soccorso che non soccorre fino in fondo. Eppure, scrive Piero Beraldi:
"Kierkegaard, nel sottolineare la valenza teologica del singolo, afferma che l’uomo è un essere che esiste davanti a Dio, come pensiero finito di fronte alla persona infinita, in un rapporto ascendente di creatura al Creatore, di figlio al Padre che lo libera, attraverso la fede e la grazia per la vita eterna, dall’angoscia e dalla disperazione della finitezza".  
Dunque, che cosa ci salva da questa malattia mortale? Dio, la fede. La fede, per quanto sia paradosso e scandalo, rappresenta la salvezza per l’uomo. L’uomo è una creatura: è una creatura  dipendente oltreché finita. L’uomo, se non accetta di mettersi in rapporto con l’infinità di Dio, si illude di poter trovare in sé l’infinito, l’assoluto. Solo con l’adesione a Dio il singolo rivela la sua bellezza, la sua pienezza, la sua autenticità. E la salvezza dell’uomo finito ha luogo nella figura di Cristo, secondo Kierkegaard. 

Egli, infatti, è il salvatore degli uomini, però li raggiunge singolarmente e li salva uno a uno, invitandoli tutti ad andare da lui per ricevere la salvezza. Qui si manifesta il carattere del suo amore; un amore libero e fecondo, che non è generico, ma fattivo. 

Cristo non forza nessuno, ma rispetta la libertà di ognuno. Dunque, il tormento della disperazione può essere oltrepassato solo dalla fede, cioè dalla preghiera a Dio. Dal momento che il credente si affida a Dio, l’angoscia del possibile viene meno, la sua coscienza si rassicura. Ma la fede libera anche dalla disperazione. Infatti, Dio, al quale tutto è possibile essendo onnipotente, può riscattare l'individuo dai suoi limiti, può aiutarlo a realizzarsi, e così può liberarlo dalla disperazione. Stando a ciò che scrive Kierkegaard, persino nella fede vi è il paradosso. La fede non può assicurare certezza e riposo, perché è assurdità, irrazionale e scandalo. 

La rivelazione cristiana non ha nulla di razionale o di plausibile dinanzi alla ragione. Per la ragione, infatti, è qualcosa di paradossale e scandaloso la fede in un Uomo che è insieme Dio, in un individuo storico che è nello stesso tempo metastorico. Impensabile razionalmente è anche l'intimo rapporto fra Dio e l'uomo. Infatti, Dio è totalmente trascendente. Ciò implica, di fatto, una distanza infinita fra lui e l'uomo. La fede, nella sua paradossalità, crede nonostante tutto e assume tutti i rischi possibili. Proprio come fece Abramo: egli credette in forza dell'assurdo ed ebbe fede non solo per l’altra vita, ma anche per questa. 


di Fabio Squeo 


sabato 7 giugno 2025

Smarrire il senso umano

 

L'umanità non è né una laurea né una professione. È semplicemente volontà e filosofia, la motivazione a vivere la nostra verità unica. Se respiriamo tutti la stessa aria, a differenza di altre specie sul pianeta, ciò che ci distingue è la nostra capacità di sentire di più, di pensare di più e di varcare una soglia che altre specie non possono.

Essere umani significa essere vulnerabili e deperibili, accettare di essere usati e lasciare impronte senza aspettarsi che qualcuno si ricordi di noi. È il riconoscimento di aver fatto la tua parte e che ora è il momento di dare una possibilità a qualcun altro. È sentirsi a disagio con la verità, ma alla fine accettarla - non scavare buche profonde, non cercare di trovare la luce in ogni angolo buio, ma lasciarsi sprofondare nel vuoto e sentirsi intorpiditi. Perché essere umani a volte significa essere sensibili, essere in grado di sentire di più e giudicare di meno. Si tratta di accettare la persona che si sta diventando e permettere la maturazione durante il viaggio.

Essere umani non significa avere la capacità di fare cose impossibili; per questo abbiamo i sogni, la fantasia, l’immaginazione. Si tratta di conoscere i nostri limiti e i nostri livelli di base. Non è una maratona a cui non ti sei mai iscritto, una gara che la società ti ha costretto a correre perché qualcun altro l'ha fatto prima di te. Si tratta di essere in grado di mettere in discussione razionalmente queste convinzioni e ideologie, ottenendo risposte a cose di cui le persone hanno paura di parlare. Si tratta di rimettere insieme idee e vivere la vita nonostante le sue continue lotte e sfide.

Vivere secondo umanità non è piegarsi come un albero al primo soffio di vento; si tratta di voler essere vento per muoversi nella direzione che più si desidera.

Purtroppo, il senso umano in molti casi sembra dissolversi per far posto ad egoismi, a manie utilitaristiche. Quando succede questo, si sente un vento gelido arrivare dall’anima che ha smarrito il suo ruolo.

Essere umani inizia conoscendo prima se stessi, e poi gli altri.

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