Ora cercherò di chiarire il suo pensiero: compito doppiamente arduo. Dunque, ciò che per lui determina l’esistenza è il fatto che essa (l’esistenza, per l’appunto) non è qualcosa di immutabile. È una sorta di Panta rei Eracliteo.
Esistere significa evadere da una realtà data ed esporsi ad una condizione di possibilità. In altre parole, se esistere significa andare al di là del proprio orizzonte, vuole dire che l’uomo è un continuo progetto, una tensione a lanciare ormeggi oltre quelli già raggiunti.
Heidegger scriverà:
“Il progettare però non ha nulla a che vedere con l’escogitazione di un piano mentale in conformità al quale l’esserci edificherebbe il proprio essere, infatti l’esserci, in quanto tale si è già sempre progettato e resta progettante finché è.”
L’uomo è portato per natura a cambiare la sua situazione, la sua essenza, la sua natura; La sua natura è caratterizzata dal progettare, non nel senso di un progetto urbanistico, ma derivata da un voler trascendere la situazione data, non accontentandosi mai di essere ciò che è.
Così come l’esistenza non è un oggetto, stessa cosa vale per l’Essere. Infatti, ad avviso di Heidegger, la filosofia occidentale, da Parmenide a Hegel, è stata costruita su un errore: quello di scambiare l’Essere (possibile) con un Ente (impossibile) che può essere Dio o la materia.
L’unico pensatore che si è avvicinato a una visione, per così dire, esistenzialistica, e non semplicemente metafisica, è stato Nietzsche.
Mi direte, perché proprio lui? Perché lui, nella sua follia c’ha visto chiaro: l’uomo, o l’ente non è qualcosa di statico, ma è volontà di potenza. Una volontà di Potenza che è anche il “senso” dell’essere, dunque dell’esistere, dello stare al mondo.
La condizione necessaria che porta ad istituire e a restituire sempre nuovi linguaggi e a individuare ottime chiavi di lettura del mondo di cui noi stessi siamo il fondamento.
di Fabio Squeo
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