martedì 12 agosto 2025

Nessuno è inutile al mondo

 

Attraversarono il bosco dopo una leggera pioggia settembrina. I rami scricchiolavano sotto le loro scarpe nonostante l'umidità, e le loro risate echeggiavano tra i tronchi delle querce e i sentieri dei cervi, riecheggiando una gioia che si ritrova più nei bambini che negli adulti.

Era sabato. Paolo seguiva suo padre lungo il ripido vialetto fino alla cassetta della posta nascosta dall'edera ai margini di un basso muro di mattoni, dipinto di bianco e ricoperto di soffice lichene.

Antonio, il padre di Paolo, Papà smistava le bollette e qualche lettera.

Risalivano il vialetto e il figlio si affannava per tenere il passo. I bambini di dieci anni lo fanno. Seguono i loro padri. Cercano di tenere il passo. Cercano di essere come loro.

Arrivarono al parcheggio sei metri sotto la porta d'ingresso quando Antonio si fermò.

"Senti?" disse.

Paolo alzò lo sguardo, confuso, ma poi sentii anche lui: risate e fruscii di cespugli appena oltre il limite degli alberi.

Un debole sorriso sfiorò il volto di Antonio.

"Fred? Sei tu?"

Il bosco rispose con un movimento. Due giovani uomini scesero dagli alberi, umidi e macchiati di foglie.

"Ciao Antonio!" disse quello più alto, porgendogli la mano.

"Ciao Fred, come stai?" rispose Antonio.

"Sto bene, Antonio. Questo è Tom. È mio amico. Andiamo a scuola insieme."

Tom si asciugò il naso con un guanto senza dita. "Ciao Antonio. Sono Tom, ma mia madre a volte mi chiama Tommy Furia."

"Tommy Furia!" esclamò Fred, scoppiando a ridere, coinvolgendo Tom nella risata.

Per un bambino di dieci anni, era strano vedere adulti che si comportavano come ragazzi.

Antonio non sembrò sorpreso. "Voi due volete una Coca-Cola e dei biscotti?"

"Sì, Antonio! Dai, Tom, facciamo uno spuntino!"

Tom fece un ampio sorriso. "Ok! Facciamo uno spuntino!"

Paolo guardò suo padre, perplesso. Ma lui, con una pacca sulla schiena, disse: "Dai, Paolo, andiamo a dare qualcosa da mangiare a questi uomini prima della loro lunga camminata verso casa."

Antonio tirò fuori dalla sacca Coca-Cola e i biscotti. Si sedettero su un grosso sasso che trasformarono in tavolo da picnic e iniziarono quel pasto improvvisato. 

Il sole emergeva da dietro le nuvole che si ritiravano. L'odore di terra bagnata riempiva l'aria.

Fred e Tom raccontarono storie di salamandre ed edera velenosa, cartoni animati e programmi TV. Antonio rideva con loro, mentre il figlio lo guardava.

Fred si arrampicò sul muro di contenimento che delimitava la loro area di sosta e dichiarò: "Possono ricostruirlo. Possono renderlo migliore di prima!"

Tom intervenne. "Migliore! Più forte! Più sicuro!"

Poi Fred saltò teatralmente sul prato. Tom applaudì.

Paolo lanciò un'occhiata al padre prima di unirsi all’euforia del gruppetto. I suoi occhi erano calmi. Non c'era giudizio in loro. Solo calore.

Rimasero seduti al sole del tramonto, sorseggiarono le bibite, sgranocchiarono biscotti e condivisero la strana magia di quel pomeriggio. Alla fine Antonio controllò l'orologio.

"Fred, non pensi che dovresti tornare a casa? Tua madre potrebbe essere preoccupata. Posso accompagnarvi entrambi."

"Oh, sì", disse Fred. "Hai ragione, Antonio."

Saltarono nella vecchia auto e si diressero verso la dimora di Fred. Giunti a casa, Antonio aprì loro la portiera. Fred lo abbracciò. Tom gli strinse la mano. 

"Grazie, Antonio", dissero entrambi.

Se ne andarono a braccetto. La madre di Fred salutò dalla porta gli amici dei suoi figli. Antonio ricambiò il saluto. Poi padre e figlio tornarono a casa.

"Sono due ragazzi speciali, Paolo", disse infine. 

"Non chiedono nulla, se non la compagnia di persone semplici e gioiose come loro. Vogliono soltanto essere trattati con gentilezza e dignità."

Nessuno è inutile al mondo, se alleggerisce i pesi di un altro.

lunedì 11 agosto 2025

Una orribile visione

 

Jack era un appassionato di astronomia. Era una passione che coltivava fin dagli anni del liceo. Nel tempo, nella mansarda della sua casa, si era costruito un personale laboratorio, un punto di osservazione del cielo notturno. Si era dotato di telescopio con il quale trascorreva molto tempo nell’osservare le meraviglie dell’universo.

Una notte fece una scoperta terribile. Fu un episodio da collocare tra la fantasia e una realtà assurda.

Mentre scrutava la Luna, improvvisamente Jack si allontanò dall'oculare del suo potente telescopio. Incredulo su ciò che gli sembrava di aver visto, continuò ad arretrare finché le natiche non urtarono il basso muro di protezione della sopraelevazione della mansarda.

Sicuramente, se avesse continuato ad arretrare e sarebbe caduto sul piano inferiore con gravi conseguenze.

Si lasciò cadere a terra e si strofinò gli occhi con forza. Lentamente, alzò lo sguardo, ammirando la luminosità della luna piena, un globo luminoso che gli era sembrato familiare pochi istanti prima, e ora gli sembrava stranamente minaccioso.

"Che cos’era?", si chiedeva Jack.

Eppure l'aveva visto. Un ometto orribile camminava sulla superficie lunare, ammucchiando una pila di pietre e danzandoci intorno con ferocia celebrativa.

L'intento selvaggio fu ulteriormente accentuato quando l'uomo si voltò verso la lente esplorativa del telescopio e puntò il dito dritto verso di lui.

Non credeva a ciò che aveva visto. Si domandava: “Anche se fosse vero ciò che ho visto, come avrebbe potuto vedere me?", gemette Jack. 

"Non poteva guardare da quella distanza senza un telescopio. È... è impossibile."

Tutto era impossibile. Nessun uomo poteva camminare sulla luna a viso scoperto e indossando solo jeans tagliati e scarpe da ginnastica.

Trascorse il tempo necessario affinché Jack potesse recuperare un po’ di razionalità, ma prima di riuscire a cancellare quella immagine dalla mente, si appisolò.

Sognò quella strana figura.

Al risveglio, ancora stranito, Jack tornò a guardare al telescopio.

L'orribile ometto salutò con la mano, sorridendo maliziosamente.

Jack svenne.

Posizione e situazione dell'essere


 

Quando mi pongo domande come queste:

Che cosa è l’essere? 

Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il niente?

Chi è sono io?   

Perché proprio io qui e ora? 

Che cosa veramente desidero?

In questi casi mi penso come un raro e libero cominciamento. Pongo queste domande chiarendo da subito che io occupo un posto nel mondo, una situazione in cui mi rintraccio come proveniente da un passato.  Prendo coscienza di ciò che sono, di quel massifico inconosciuto che mi avvolge e scopro di essere banalmente in un mondo entro il quale mi oriento.

Proprio quando stavo per raggiungere delle cose, queste, le avevo perdute. Era tutto a portata di mano ed erano così evidenti. Ora, non mi resta che meravigliarmi. E chiedo piuttosto al mondo che cosa veramente sia tutto questo. Ogni cosa mi appare transitoria, passeggera, momentanea. E mi accorgo secondariamente che non ero alla sorgente, come non sono ora alla foce. Ero posizionato tra il principio e la fine come un quadrante senza lancette. E mi chiedo cosa siano l’uno e l’altro.  Muovendomi tra le cose cerco l’essere, e lo concepisco come l’insieme ordinato di esseri di cui io stesso faccio parte. 

Specifico che nel farne parte non vi è sempre una volontà del soggetto di farne parte. Facendone parte senza prenderne parte (mi) ritrovo un essere-cosa, un essere-oggetto, un essere-tra-esseri. Ecco che l’essere oggetto prende la forma di un determinato essere.  Fausto si girerà non perché è stato solo chiamato, perché primariamente ha udito il suo nome. 

Chiunque poteva possedere quel nome.   Vale a dire di ciò che è vivo e di ciò non lo è più, ciò che è reale e ciò che è illusorio: le persone e le cose. 

Ogni cosa è perché io ne faccio parte, e proprio perché io ne faccio parte ogni cosa è. Io invece, pur non essendo estraneo all’essere, sono diverso: diverso dagli esseri, diverso dalle cose, diverso in ciò che sono. Io non sono di fronte alle cose così come sono di fronte a me stesso, di fronte al mio essere. Io sono colui che chiede, interroga, vuole perché non sono mai abbastanza, mai totalizzante.  

Per quanto io possa tradurmi nella cosa davanti a me, resto sempre un essere per me stesso.   Sartre diceva che l’essere in-se non sa di sé dal momento che ne è completamente assorbito da sé. Solo il per-se è l’origine della negazione e sussiste per e attraverso la negazione. Io mi rendo conto di ciò che sono finché sono in grado di dire io non sono. 

Fausto non è una macchina perché è umano.  Fausto, come fondamento di sé è coincidente nell’essere con il sorgere della negazione. Egli si fonda in quanto nega di sé un certo essere o una maniera di essere. Ma se costituisco me stesso a cosa sto dicendo di essere questo piuttosto quest’altro, cioè mi costituisco oggetto e proiezione di me stesso, allora io non sono più come tale ciò che l’io in sé stesso è.  In altre parole, io non mi rendo conto di ciò che sono fino a quanto non mi concepisco oggetto di negazione. 

L’essere come essere me stesso o l’essere come io non sono di essere, è vicino e lontano, certo quanto inaccessibile, e può essere (ri) conosciuto non appena diventa qualcosa stabilmente. 

Lo stabilirsi dell’essere presso me sé stesso, mi rende ancora una volta una cosa-di-essere presso me stesso e quindi non più io vero. Ma la prova di poter far diventare essere un io autentico che essere non è nel suo fondamento non può risolversi. Ognuno di noi è un non-essere nell’essere; e non tutti gli esseri sono il non-essere che sono.   

L’essere si mostra cosi squarciato, con una falla nel suo stesso essere. Questo è il motivo per cui tendiamo quasi capricciosamente a concepire l’essere come il perfetto. L’essere non è perfetto perché è assoluto e non conoscibile. 

Solo il conoscere conferisce il primato alla cosa conosciuta, perché semplicemente solo le cose sono conoscibili; e nel conoscere la cosa conosciuta diventa essere, vita snaturata.


Fabio Squeo 

domenica 10 agosto 2025

L'amore portato dal vento

 

Molfetta in un tramonto d’estate. 

Riflessi di luci d’orate scintillano sulla superficie dell’acqua increspata del porticciolo. 

Quella curva insenatura sembra voler abbracciarti nella sua vecchia storia. 

Una piccola barca, come obelisco, posta in piena vista sul largo che si affaccia sul porto, si mostra sorretta da un’onda minacciosa. 

Ti ammonisce e ti ricorda sfida e amore per il mare.

Giovanna, una giovane scrittrice di storie del cuore, correva in quella brezza serale. Portava con sé una cartella piena di appunti da proteggere. All’improvviso, un colpo di vento le strappò via alcuni fogli, disperdendoli nell’aria.

«No!» gridò, cercando di afferrarli, ma ormai erano volati troppo lontani.

Fu allora che vide Luca. 

Un uomo semplice, indossava una camicia un po’ in disordine, raccoglieva con cura i suoi fogli preziosi.

Quando si avvicinò, Giovanna notò le sue mani signorili, e i suoi occhi blu come il colore della mare.

«Credo che questi siano tuoi» disse lui, porgendole i fogli.

«Sei una scrittrice?»

«Sì, ma senza grandi pretese» rispose Giovanna, sentendo un calore insolito salirle alle guance." 

Un attimo di silenzio e poi: «E tu?»

«Luca. Professore … o almeno, ci provo» scherzò lui, indicando la borsa sotto il suo braccio, tipica da insegnante.

La brezza continuava a spingere le due figure, ma nessuno dei due sembrava accorgersene. Erano entrambi presi dalla magia di quel momento.

Luca le sorrise: «Posso offrirti qualcosa al bar? Così rimettiamo in ordine questi fogli… e forse potresti parlami della tua vena artistica».

Giovanna annuì, come se le fosse stato impossibile rifiutare l’invito.
Mentre camminavano insieme verso un piccolo caffè nascosto tra mura antiche della città, sentì che quella sarebbe stata solo la prima di molte, moltissime passeggiate.

Perché a volte il destino ha il profumo della sorpresa e quella volta fu coplice una fresca brezza marina.

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