lunedì 11 novembre 2024

Comunicare e farsi capire


Una buona comunicazione è la chiave per leader e professionisti di successo. Sarebbe fantastico se una comunicazione efficace fosse semplice e facile da fare, ma sfortunatamente non è così. Ci sono un gran numero di tecniche e così tante versioni che potrebbero riempire libri.

In generale, pensiamo ai migliori comunicatori come persone in grado di esprimersi in modo conciso, con messaggi potenti e citazioni memorabili che rimangono impresse, sfruttando la narrazione o le metafore per creare parallelismi e aiutare i messaggi chiave a essere meglio compresi, usando gesti, contatto visivo e linguaggio del corpo, con contenuti ma anche coinvolgenti e così via. C'è semplicemente un numero schiacciante di qualità, tecniche, modelli, articoli e libri sull'argomento ed è difficile credere che si possa mai finire di imparare in questo campo.

La comunicazione non avviene quando stai parlando o scrivendo. Avviene quando l'altra parte comprende.

In qualità di comunicatore, è assolutamente fondamentale capire che il tuo lavoro inizia quando il messaggio viene inviato e finisce solo quando ti assicuri che sia stato ricevuto correttamente.

Purtroppo, spesso ci preoccupiamo innanzitutto di dire ciò che ci viene facile a mente, senza preoccuparci della forma e dell’accuratezza del messaggio. Quando si comunica, l’unica persona che conosce il vero significato del messaggio è soltanto chi parla o scrive. Il destinatario deve interpretarlo e per farlo è costretto ad usare la sua psicologia la quale è del tutto imprevedibile sul tipo reazione che il messaggio potrebbe far scattare.

Anni fa, mentre ero impegnato a seguire le attività in laboratorio di informatica, un alunno era bloccato e cercava aiuto dall’insegnante. Poiché io ero occupato con un altro studente, il ragazzo pensò di rivolgersi al mio collaboratore (docente tecnico-pratico) invocandolo da lontano con la parola “assistente”. Il collaboratore risentito dall’appellativo si infuriò e gli urlò: “Io non sono assistente di nessuno!”

Il ragazzo, intimidito dalla reazione del collaboratore, stava semplicemente usando un modo per richiamare l’attenzione del docente e non aveva nessuna intenzione di offendere.

Non seppi mai perché ci fu quella reazione spropositata, forse a causa di una cattiva percezione di quel termine, o forse fu determinata da brutte esperienze passate e falsi pregiudizi, o forse dal senso della parola intesa come appellativo servile. In ogni caso, quella comunicazione, apparentemente non offensiva e ben intenzionata, fu chiaramente infelice.

Cosa si può da imparare da questa storia.

L'apprendimento più prezioso qui è rendersi conto che questo malinteso non è avvenuto a causa di ciò che il ragazzo ha detto. È successo perché lui aveva capito ben altro. In quella parola sottostava un significato completamente ignorato dall’alunno.

Chi è il colpevole il ragazzo per la sua schiettezza o il docente per la sua incomprensibile reazione?

Potresti pensare che il destinatario fosse troppo sensibile e "permaloso". In questo caso, la reazione, pur avendo una logica, sarebbe inaccettabile. In quelle condizioni, il docente non avrebbe potuto evitare quel tipo di reazione. Egli combatteva nel suo animo per salvare la sua dignità. La recondita causa della sua esagerata reazione agiva in lui esasperando l’anima. Evidentemente soffriva di un senso di inferiorità e non si giustificava come la sua grandezza potesse essere messa a “servizio” o sottostare ad un’altra personalità. Tutto questo era in grado di generare rabbia interiore, accresciuta dalla convinzione che l’altra persona valesse meno lui.

La rivolta del mondo interiore, completamente sconosciuta all’esterno, era emersa con tutta la sua forza.

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