Invidio chi ha sempre
qualcosa da dire e che ritiene che quello che dice è importante per l’uditorio.
Le risposte che trovo per me
stesso sono così insufficienti che trovo arrogante proporle agli altri.
Vi racconto una breve storia.
Partecipavo ad una riunione
dalla quale dovevano emergere proposte organizzative per lo sviluppo di un
progetto presente soltanto nella mente dei partecipanti.
Seguii ed ascoltai con molta
attenzione interventi dotti, ma che mi imbrogliavano la mente.
Volevo alzare la mano e dire:
-Ma
che hai detto?
- Ho udito tante belle parole ben miscelate in un fraseggio
elegante ma non ho capito niente!
Non ho avuto il coraggio di intervenire e dichiarare il mio buio mentale!
Immaginate che figura avrei
fatto?
Silenziosamente continuai ad
ascoltare gli altri conferenti, pensando di avere un problema personale ed essere incapace
di cogliere le sottili implicazioni del mio oratore.
Finì che mi annoiai!
Molti ripetevano la stessa
cosa come se tra gli ascoltatori ci fossero ebeti e pensionati in dormiveglia.
Alla fine, il mio telefonino
mi salvò!
Squillò tra lo stupore di
tutti ed io, mostrandomi falsamente dispiaciuto, uscii dalla sala di riunione.
Rientrai dopo la ricreazione dello spirito e, per non apparire estraneo al dibattito, feci un intervento senza pretese.
Rimasi sorpreso per il credito suscitato!
Avevo perso parte del dibattito e sentivo di essere in tema.
Mi resi conto che avrei potuto dire qualunque cosa e il risultato sarebbe stato uguale, con la semplice differenza di allungare il tempo del dibattito.
Al termine della riunione, il verbalizzante scrisse il riassunto delle nuvole di parole, cadute a pioggia sull'assemblea.
Qualcuno, me compreso, uscendo dalla sala, si chiedeva:
"Ma che cosa abbiamo deciso?".
Rientrai dopo la ricreazione dello spirito e, per non apparire estraneo al dibattito, feci un intervento senza pretese.
Rimasi sorpreso per il credito suscitato!
Avevo perso parte del dibattito e sentivo di essere in tema.
Mi resi conto che avrei potuto dire qualunque cosa e il risultato sarebbe stato uguale, con la semplice differenza di allungare il tempo del dibattito.
Al termine della riunione, il verbalizzante scrisse il riassunto delle nuvole di parole, cadute a pioggia sull'assemblea.
Qualcuno, me compreso, uscendo dalla sala, si chiedeva:
"Ma che cosa abbiamo deciso?".
Presumendo che ogni partecipante
avesse le esatte coordinate di quel progetto, la probabilità che tutti stessimo
parlando dello stesso oggetto, era già un valore percentuale minore di cento.
Aggiungiamo, come formaggio su
una minestra comune, la voglia di protagonismo, la superficialità, l’incompetenza,
la forma impropria di espressione, la malafede, l’ipocrisia, l’assecondare di
circostanza, l’interesse, le inibizioni e i divieti psicologici e tanto altro
ancora, otteniamo una lotteria comunicativa.
Questo quadro scoraggerebbe
chiunque, dotato di un minimo di razionalità, ad intervenire nel dibattito.
Il silenzio appare la scelta
del saggio.
Il saggio potrebbe, in alcuni
casi, considerare dannoso il suo silenzio perché “vede” prima l’errore per sé e
poi per quello che di riflesso provocherebbe alla comunità tacendo.
Decidendo di parlare, il
saggio lo fa esprimendosi con semplici concetti e con poche parole.
Quando il saggio ritorna nel
silenzio, l’uditorio deve avere compreso il beneficio ottenuto e il valore
aggiunto al colloquio.
Soltanto in questi casi, aver parlato si rivela più importante del silenzio.
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