martedì 6 maggio 2025

Incontrare l’altro è incontrare Dio (Martin Buber)


In un periodo storico segnato da guerre mondiali, mutamenti sociali, il pensiero di Martin Buber si presenta come un invito al recupero del dialogo tra gli esseri umani. 

Martin Buber nasce l’8 febbraio del 1878 a Vienna e muore il 13 giugno del 1965 a Gerusalemme. Filosofo, pedagogista e teologo ebreo conosciuto per aver lavorato ad una visione “relazionale” dell’esistenza. Spieghiamo meglio dopo.

Vediamo anzitutto chi è: Osservando il filosofo in una delle sue fotografie o autoritratti, lo sguardo si posa, inevitabilmente, sulla sua folta barba che richiama un lontano sapore: quello della tradizione sapienziale ebraica. Alle spalle di questa immagine quasi biblica si nasconde un pensatore originale e profetico capace di ridare una nuova voce alla filosofia.

Martin Buber trascorse la sua infanzia a Leopoli, attuale Ucraina, ma si formò presso diversi istituti universitari: all’università di Vienna iniziò i suoi studi, interessandosi di Filosofia, filologia, letteratura e storia; poi seguì Lipsia, Berlino e Zurigo. A Zurigo, ultima tappa, oltre ad approfondire la filosofia, conobbe la sua futura moglie. Durante questi anni di studio e approfondimenti, sviluppò un forte interesse per il misticismo e chassidismo ebraico (movimento di massa ebraico, sorto nel XVIII secolo in Europa orientale, che si basa sul rinnovamento spirituale dell'ebraismo ortodosso).

Si avvicinò alla mistica ebraica così tanto da doverla poi, in un secondo momento, integrarla alla sua vita personale e spirituale. Secondo Buber, l’adesione alla mistica non voleva dire allontanarsi dalla realtà di tutti i giorni, o viaggiare di fantasia: al contrario. La mistica, per Martin Buber, era una vera e propria fonte alla quale abbeverarsi: non solo sul piano intellettuale, ma anche su quello esistenziale e spirituale. Buber la considerava non solo come una fonte, ma come una via, una strada per scoprire la presenza di una sacralità in ogni azione.  Stessa cosa vale per il Chassidismo ebraico. Nel Chassidismo egli trovò una mistica profondamente incarnata: una spiritualità calata nella vita delle relazioni umane. Come egli stesso sintetizza: “Ogni Tu autentico è un incontro con Dio”.

Questa frase esprime uno dei concetti centrali della filosofia di Martin Buber: dice brevemente che la vita spirituale di una persona non può essere separata dalla vita della relazione con l’altro. La nostra vita interiore non è ritiro, chiusura. È apertura. Ogni volta che incontriamo un altro essere umano – dice Buber, intendendolo come un “TU” – stiamo entrando, in qualche modo in relazione con Dio. Con questo, Buber, non vuole solo farci intendere una presenza di Dio che scaturisce nel mondo; quando ci apriamo pienamente ad un altro essere - riconoscendolo nella sua unicità - ascoltandolo nel profondo, rispettandone il vissuto (bello o brutto che sia) - si manifesta qualcosa di eccezionale: un risuono di Dio, una eco, una presenza d’amore. Addirittura, ad un certo punto, dice Buber, in quella stessa relazione, noi smettiamo di “parlare di Dio”, per “parlare a Dio”.

Quale differenza c’è?  Parlare di Dio significa trattarlo come un oggetto, come un’idea da analizzare, da confutare. La stessa Storia della Filosofia lo riduce a manualistica. Dice Buber, Dio non è un concetto filosofico che deve essere compreso, ma un TU che va incontrato. Ridurre Dio a un concetto o a formula matematica significa instaurare con un lui non un rapporto autentico di IO – TU, ma di IO – ESSO, dove Dio è messo a distanza, lontano da te; Nel suo libro Io-Tu, lo scrive chiaramente:

“Chi guarda il mondo con la modalità dell’Io-Esso non incontra Dio. Ma chi guarda con gli occhi del Tu, in ogni Tu che dice, si avvicina a Dio. Perché Dio è il Tu eterno”.

Quando Dio viene spiegato viene al contempo guardato “da fuori”, come un oggetto da osservare. Solo nell’esperienza Io-tu, possiamo parlare a Dio. Ciò significa entrare all’interno di una relazione viva personale, proprio come ci si rivolge a un TU che ci interpella e ci accompagna. Facciamo un esempio: Se spiego cos’è l’amore alla mia fidanzata, uso parole, definizioni, concetti.  Ma quando amo la mia fidanzata, quell’esperienza vale più di mille spiegazioni.

Qual è il messaggio conclusivo che Martin Buber vuole trasmetterci?

Ogni relazione con l’altro è sacra. La vita trova il suo senso nell’incontro con l’altro, quando entriamo nella reciprocità del dialogo. Tutto questo significa per Buber vivere concretamente il mistero eterno di Dio Hic et Nunc

di Fabio Squeo

lunedì 5 maggio 2025

La verità mutevole


 

Da giovane studente amavo la filosofia per cui leggevo diversi autori con il proposito di ricercare una teoria da adottare, che mi convincesse veramente.

Succedeva però, che al termine dello studio di ogni autore, ero certo di aver trovato la chiave di lettura della vita.

Mi dicevo: “Questi hanno tutti ragione! Ma dov’è la verità assoluta?”

Ero dubbioso in tutto. Probabilmente, avevo bisogno di maturare di più?

Sono passati tanti anni e la teoria definitiva da adottare non sono riuscito a trovarla. Sebbene tante di loro mi sono piaciute, nessuna mi ha convinto fino a scartare tutte le altre. Ogni teoria ha un suo scorcio di verità e un’ombra da cancellare.

È chiaro che la verità assoluta nessuno può raccontarla, pur concedendo la bellezza delle idee prodotte e il fascino del pensato.

Ora sono convinto che la verità non è una destinazione che si raggiunge, ma un riflesso che inseguiamo, in continua evoluzione nelle increspature della percezione.

La verità è, e forse rimarrà per sempre, una verità sempre transitoria nella sua vera forma.

La verità non richiede sempre prove o spiegazioni. Esiste semplicemente, ma assume molteplici volti, plasmati dalla percezione. La stessa realtà può dare vita a diverse versioni della verità, poiché ogni individuo vede il mondo attraverso la propria lente. Le differenze individuali plasmano e colorano l'idea di verità, dandole un nuovo taglio, una sfumatura diversa da comprendere.

Prendiamo, ad esempio, una prostituta. Per lei, la verità potrebbe essere semplicemente la sopravvivenza: guadagnare, sfamare la sua famiglia, vivere una vita dignitosa senza mendicare. Potrebbe non esserci lussuria o piacere, solo una cruda necessità. Ma la società spesso sceglie di vedere la sua vita attraverso una cornice ristretta, etichettando il suo percorso come un percorso di lussuria, irresponsabilità o fallimento morale.

La società sbrigativamente giudica.

Non mi riferisco soltanto al pensiero bigotto o pregiudizievole di alcuni, includo anche coloro che sono pubblicamente etichettati come "rispettabili". Una donna medico, vigile, giudice, potrebbe trovarsi di fronte a sguardi indiscreti, a silenziosi assalti di lussuria patriarcale, nonostante ricopra una posizione di rispetto ed onore.

Questi esempi, traslati nella individuazione di una verità unica e giusta, ci dicono che la verità non appartiene solo all'individuo o alla società. Si trova da qualche parte nel mezzo: nell'equilibrio, non nel conflitto.

La verità non è statica. Trascende le generazioni, si evolve nel tempo e si adatta alle situazioni. Non possiamo permetterci di essere rigidi al riguardo, perché la rigidità si incrina sotto la complessità.

In questo mondo di miraggi mutevoli, forse la cosa più vera che possiamo fare è rimanere flessibili, aperti e continuare a cercare.

Solo allora potremo cominciare ad avvicinarci al significato della verità.

domenica 4 maggio 2025

La libertà come atto formativo (Luigi Pareyson)

Luigi Pareyson (1918-991)


Se la libertà, proviene da Dio, ed è la facoltà per eccellenza di scegliere tra il bene e il male ciò significa che anche Dio possiede questa libertà, avendo scelto irrevocabilmente il bene.

Questo è il sentiero che percorre il pensiero di Luigi Pareyson, filosofo italiano noto per il suo contributo originale alla filosofia della Libertà, all’estetica e all’ermeneutica.

Luigi Pareyson nasce il 4 febbraio del 1918 a Piasco, in provincia di Cuneo e muore a Milano nel 1991. Per la sua intelligenza si fece notare da Giovanni Gentile. Si laureò presso l’Università di Torino, in Filosofia, a soli ventun anni nel 1939. Scrisse una tesi dal titolo Karl Jaspers e la filosofia dell'esistenza, che poi venne pubblicata nel 1940 dall'editore Loffredo di Napoli. 

Dopo aver studiato in maniera approfondita il pensiero di Karl Jaspers, Pareyson ha sempre riconosciuto Karl Jaspers come uno dei suoi principali maestri e riferimenti di pensiero, assieme a Soren Kierkergaard e Martin Heidegger.

Egli è definito come il pensatore della libertà tragica, della creazione e della formazione. La sua filosofia ha avuto un grande impatto in Italia e all’estero. Di formazione cattolica, fu tra i primi a presentare l’esistenzialismo tedesco in Italia, sebbene non fosse l’unico filosofo ad averlo fatto. Nel contesto italiano, dove l’esistenzialismo aveva fatto ingresso grazie a pensatori di spicco come Nicola Abbagnano, Pareyson si distinse comunque per la tipologia di approccio al pensiero; vale a dire un pensiero particolareggiato e rigoroso.

Pur condizionato dall’esistenzialismo, Pareyson ha sempre cercato una direzione personalistica. Egli ha cercato, oltretutto, di fondere l’esistenzialismo con un’attenta riflessione sulla libertà. La sua pubblicazione principe è stata quella del 1954 intitolata “Estetica. Teoria della formatività”.

Egli propone una indagine sull’arte come atto formativo. Cosa si intende atto formativo? All’inizio può sembrare un parolone, ma Pareyson lo spiega diversamente. Ad avviso di Pareyson, produrre un’opera d’arte sarebbe come, per casualità, scoprire al buio due amanti che fanno “l’amore”. 

In altre parole, l’atto formativo è quel processo mediante cui la forma (artistica) nasce e si sviluppa liberamente, in un dialogo tra l’autore dell’opera e l’opera stessa.  Non si tratta imporre una certa idea sulla realtà, una forma pre-determinata su qualcosa, ma di scoprire quella forma mentre la stai creando, formando.

La forma dell’opera d’arte emerge durante questa fabbricazione, questo fare. Facciamo un esempio pratico.  Immagina uno scultore davanti a un blocco di marmo: Non ha in testa un modello da “copiare”; ha un’intuizione vaga, un’emozione da esprimere.  Inizia a scolpire, e mentre scolpisce, ascolta la materia: trova una crepa, cambia direzione. 

Se una venatura lo ispira la segue. Non impone, ma dialoga. Alla fine nasce una scultura unica, che non esisteva prima e che non poteva nemmeno essere prevista. È un risultato nuovo, frutto della comunione creativa tra l’artista e la materia.

Secondo Pareyson proprio in questo preciso istante si compie un atto eccezionale. Questa esperienza, dice Pareyson, non appartiene solo al mondo dell’arte, ma alla vita. Ogni azione umana vera, onesta, di buon cuore è già di per sé un “atto formativo”. 

Ecco che per Pareyson, vivere è come scolpire la propria esistenza. Ogni scelta che facciamo è un colpo di scalpello. Non abbiamo un copione da seguire, ma nemmeno partiamo dal nulla. Abbiamo una materia da lavorare fatta di incontri, di relazioni, di situazioni dove sperimentiamo persino l’amore e la libertà (due misteri meravigliosi), dove oltretutto e sopra ogni cosa, ogni nostra azione “forma” e “veste” l’anima che siamo.

Quindi, tornando al discorso sulla Libertà in Pareyson, possiamo dire che essa non è quel fare ciò che ci piace, ma - per le stesse ragioni già descritte – essa è un fatto di per sé “creativo”. Sei libero di scegliere, ma sei anche chiamato a dare “forma” al tuo carattere, alla tua personalità, alla tua vita.

Pareyson era un appassionato di Dostoevskij perché nei suoi personaggi l’essere umano era messo davanti alla responsabilità della propria libertà. Ivan, uno dei fratelli Karamazov, è un intellettuale tormentato, rigido e razionale. Rifiuta Dio perché non riesce ad accettare un mondo in cui il male e le ingiustizie padroneggiano. Non dice Dio non esiste, ma: “Io rifiuto di accettare un Dio che permette il male e la sofferenza”.  Dio ha dato all’uomo una libertà troppo pesante. Dice ancora: Gli uomini non vogliono la libertà, vogliono essere guidati e illusi. 

Se Dio non esiste - dice - “tutto è permesso” , senza accettare fino in fondo le conseguenze di questa affermazione. Suo fratello illegittimo, Smerdjakov, più debole ma influenzato da Ivan, commette un omicidio. Smerdjkow dice: “Tu mi hai insegnato che tutto è permesso”. 

Ivan non ha voluto l’omicidio, ma è stato complice con le sue idee e il suo silenzio. È qui che Dostoevskij – e Pareyson con lui – ci pongono davanti il cuore del problema: una libertà senza responsabilità è solo male. Ivan, per Pareyson, è un uomo che ha fallito nell’atto formativo. Ha fallito perché non si è assunto la responsabilità della propria libertà; ha fallito perché si è barricato nella sola teoria e analisi, ha fallito perché ha rifiutato il coinvolgimento con la verità e la responsabilità dell’altro. Arriva il colpo di scena: A fallire non è solo Ivan, Dice Pareyson: fallisce la libertà stessa.

Quando fallisce la libertà stessa?  La libertà fallisce quando rifiuta la verità. Quando pensate alla libertà non dimenticatevi della verità. Questo perché la libertà è una sorta di relazione viva e amorosa con la verità. La verità non si presenta mai come un comando autoritario: non si impone, si offre, si va avanti come chiamata. 

Quando pensi alla libertà e alla verità, immaginala come avere davanti una coppia di fidanzati: la libertà (lei) fallisce nella relazione quando non ama, si chiude in se stessa e non risponde alle chiamate o addirittura “nega” le chiamate alla verità (lui). Proprio come una relazione d’amore, la Libertà e la verità devono cercarsi, devono perdonarsi, e devono ritrovarsi. 

Cosa ci vuole dire Pareyson con questo rifermento a Dostoevskij? Pareyson non intende esibire la sua conoscenza su Dostoevskij per puro egocentrismo, ma intende farlo alla luce della sua filosofia sull’uomo, nella sua verità più profonda: L’uomo nasce radicalmente libero, ma questa libertà è drammatica. 

Perché è drammatica?  Perché egli è combattuto tra il bene e il male ed è chiamato alla responsabilità. 

La responsabilità è una verità che interpella, dice; cioè chiama le persone a prendere posizione, a “formarsi” nel confronto con essa. Dovete vedere la responsabilità non solo come un dovere morale, ma come un costitutivo essenziale della dimensione umana. In altre parole, l’essere umano è chiamato a formarsi costantemente, dove la verità e la libertà rappresentano un cammino che non si esaurisce mai, dove ogni decisone può avere il sapore del mare o della terra. 

 di Fabio Squeo

sabato 3 maggio 2025

Nietzche vs Osho


 

In un luogo oltre la vita, si incontrano due filosofi controversi che seduti uno accanto all’altro decidono di parlarsi. Da una parte il profeta del nichilismo (colui che disse “Dio è morto”), Friedrich Nietzsche, e dall'altra un Osho, felice e sereno che parla di libertà, vivendo ogni giorno felicemente.

Nietzsche, sapendo cosa Osho si aspettava di sentire apre la conversazione dicendo: “Dio è morto. L'umanità ha bisogno di qualcos'altro che lo sostituisca.”

Osho, mantenendo la sua flemma gli risponde: “No, ti sbagli! Dio non è morto. È solo disoccupato e l'ignoranza delle persone ne paga il prezzo e finché non se ne renderanno conto, il mondo continuerà ad essere triste.”

Nietzsche: “Amico mio, sei fin troppo ottimista. Dio o la religione in sua vece, è come una sedia a rotelle. Le persone la usano per spostarsi da un luogo all'altro. Io ho tentato di distruggere quella sedia che li vede come portatori di handicap. Devono imparare a camminare con i propri piedi.”

Osho: “Cosa stai dicendo, Nietzsche? Non proiettare il tuo catastrofismo sulla gente. Possiamo dire loro con amore che possono autodeterminarsi. La distruzione non è la risposta al caos che vedi. La consapevolezza è la strada da intraprendere.”

Nietzsche: “Illuditi, Osho! Se le persone seguissero il tuo consiglio, userebbero solo un'altra sedia a rotelle.”

Osho: “Potrei essere d’accordo, però la mia sedia a rotelle li renderebbe consapevoli delle loro decisioni senza che si aspettino di avere il paradiso come premio.”

Nietzsche: “Dio è morto. Dio rimane morto. E noi lo abbiamo ucciso. Come potremo noi, assassini di tutti gli assassini, consolarci? Ciò che era il più santo e il più potente di tutto ciò che il mondo abbia mai posseduto è morto dissanguato sotto i nostri coltelli. Chi ci asciugherà questo sangue? Con quale acqua potremmo purificarci? Quali feste di espiazione, quali giochi sacri dovremmo inventare? La grandezza di quest'opera non è forse troppo grande per noi? Non dobbiamo forse diventare noi stessi degli dei semplicemente per esserne degni?”

Osho: “Dio esiste perché non sei consapevole di te stesso. Dio esiste perché non hai stabilito alcun contatto con il tuo centro. Nel momento in cui conosci te stesso, non c'è più Dio e non c'è più bisogno di alcun Dio. Soltanto in questo io trovo il Dio morto”.

Ciò che intendo è che devi esplorare te stesso. Il giorno in cui troverai il tuo sé, non ci sarà più bisogno di cercare Dio.

Dio non può morire - le finzioni non muoiono mai. Nel momento in cui sai che sono finzioni, non c'è più il problema della loro morte. Né nascono, ne muoiono. Dio non è mai nato, in primo luogo: come può morire?

Dio è come un personaggio di fantasia in una storia. Proprio come in ogni storia con personaggi di fantasia, Dio è il personaggio più importante. Nel momento in cui lo capisci, non hai bisogno di scoprire se Dio è reale o no, non hai bisogno di ucciderlo.”

Nietzsche: "Allora anche tu sei contro la religione?”

Osho: "Sono contro la religione e con la religione allo stesso tempo, perché non esiste una vera religione. Non mi riferisco a una religione in particolare, ma a tutte le religioni.

La vera religione può essere solo una, proprio come la scienza. Esiste una sola scienza. Se la religione è vera, deve avere le stesse credenze. Perché ogni religione ha concetti diversi, perché ci sono così tanti conflitti tra le diverse religioni?

La scienza si basa sul mondo oggettivo, che può essere dimostrato con esperimenti. Mentre la religione è così soggettiva. Ha significati diversi per persone diverse. La cosa più importante è che la religione si basa su Dio, piuttosto che sull'ESSERE. Ogni discussione verte su Dio.

Nell'era illuminata, man mano che ci sviluppiamo, ci saranno due scienze: la scienza oggettiva (che si occupa delle cose) e la scienza soggettiva (che si occupa degli esseri). Non ci sarà più religione nei tempi a venire.

Il giorno in cui la scienza della coscienza avrà origine, sarà la morte di tutte le religioni, perché la religione sta sfruttando l'umanità fin dall'inizio. Le persone muoiono in nome della religione, che afferma di essere onnisciente, di sapere tutto perché teme l'ignoranza. Il giorno in cui dirà che non sapevamo, come giustificheranno il concetto di Dio?”

Nietzsche: “L'uomo moderno è debole perché non vuole soffrire e cerca di sfuggire al dolore, e senza dolore non si può essere forti.”

Osho: La vera lotta è interiore. La vera lotta è in noi stessi. Non dobbiamo lasciarci distrarre dall'esterno, dobbiamo concentrarci su noi stessi.”

Nietzsche: Osho, per favore, riferisci anche tu alla gente che le distrazioni la stanno rendendo debole. La loro volontà di potenza la sta distruggendo. Questo non va bene.”

Osho: “Ohhh Nietzsche, sei davvero noioso. Perché non lasci che le persone si godano la vita? Perché le costringi a comportarsi secondo i tuoi dettami? Non c'è bisogno di preoccuparsi. Mantieni la calma e goditi la vita.”‎

‎Mentre la discussione continuava, si parlava di difficoltà e debolezza. Nietzsche parlava di crescita personale. Dice che se si vuole crescere personalmente, bisogna comprendere le difficoltà.

‎‎Nietzsche: “Agli esseri umani che mi riguardano in qualche modo auguro sofferenza, desolazione, malattia, maltrattamenti, umiliazioni... perché auguro loro l'unica cosa che può dimostrare oggi se si vale qualcosa o no: la capacità di resistere.

‎‎Voglio che ogni uomo e ogni donna siano forti e attraverso la sofferenza si può raggiungere questo obiettivo. 

Questo vi dirà qual è la verità: avete riposto tutto su Dio. Ora che Dio è morto, cosa farete? Perché non prepararci? Perché non abbandonare la sedia a rotelle e cercare di camminare da soli?”

Osho: “La vita in sé è così bella che chiedersi quale sia il suo significato è semplicemente assurdo. È lì, nella sua bellezza, nella sua gioia, nella sua vitalità. Non ha scopo e non ne ha bisogno. ‎La vita è come un flusso e quando ti muovi con questo flusso, capisci qual è la lotta. Su cosa dovresti concentrarti. Quindi vivi la vita felicemente. Non ti potrà più essere concessa.”

‎Alla fine, i due filosofi dovettero terminare la loro discussione. Erano stati richiamati da dove erano venuti.

Stringendosi la mano, Osho dice a Nietzsche: "Siamo entrambi le due facce della stessa medaglia. Se tu sei Croce, io sono Testa. Tu distruggi le illusioni, io ti indico come superarle".

Nietzsche gli risponde: “Lo so, ma non pensi di vivere nella giocosità? La vita non è un gioco, è una battaglia e dobbiamo vincerla.”

Osho: "Sì, la vita è una battaglia, ma si può vincere con la felicità. In ogni caso, la tua verità è vera per te e la mia verità è vera per me, ma entrambi lavoriamo per la stessa verità e questo è sufficiente".

‎Entrambi si strinsero la mano e se ne andarono.

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