venerdì 21 marzo 2025

Simone Weil e la sua filosofia dell’attenzione

Simone Weil (1909-1943)

“Questa società è diventata una macchina per comprimere il cuore e fabbricare l’incoscienza”.

È una grande donna che scrive; una pensatrice originale profondamente interessata al concetto di giustizia sociale: Il suo nome è Simone Weil. Questa filosofa è poco trattata nei libri di Storia della filosofia, nonostante la sua evidente profondità di pensiero. Tutto ciò si spiega a partire dalla sua ricerca filosofica “multi-disciplinare”. Il suo concetto si costituisce come una mescolanza di argomentazioni difficilmente richiudibili all’interno di una corrente di pensiero ben precisa.

Il suo pensiero si lega molto bene alla teoretica, alla storia, alla politica, alla religione, all’etica, al misticismo, allo spiritualismo, pur non avendo quel rigore accademico formalizzato.  Al primo approccio di studio, potrebbe sembrare di avere a che fare con una tuttologa del pensiero: in realtà le cose vanno diversamente. È chiaro che stiamo avendo a che fare con una vita straordinaria.

Dunque, partiamo dall’origine: Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio del 1909 in una famiglia ebrea e muore nel 1943 alla giovane età di 34 anni di tubercolosi. Sin da ragazzina mostra una intelligenza viva e pungente. Dopo la laurea in filosofia, inizia a insegnare filosofia nelle scuole superiori. Nel 1934 sospende momentaneamente l’insegnamento per dedicarsi al lavoro nella fabbrica Renault per constatare le forme di alienazione e le condizioni di lavoro degli operai. Una esperienza durata poco in confronto a una vita intera di continuo esilio. Fu costretta, infatti, ad abbandonare le sue ricerche, i suoi lavori per le discriminazioni razziali.

Nel 1940 vi è l’epilogo: con l’occupazione nazista e l’emanazione delle leggi antisemite, le fu proibito categoricamente di insegnare. Questo evento si presentò come un episodio tanto drammatico quanto rivoluzionario: Simone Weil entrò in contatto con la resistenza e con gli ambienti cristiani.  

Analizzando il pensiero di Weil, pare che ella prenda le distanze dalla Volontà di Potenza di Nietzsche. Ella è contraria a tutte quelle ideologie che esaltano la forza, la potenza. Crede piuttosto che la vera forza risieda non tanto nel dionisiaco, quanto nell’umiltà, nella compassione, nella debolezza accettata. Possiamo sintetizzare il tutto nella pratica dell’attenzione.

Essere attenti o attenzionare qualcosa significa essere rivolti a, concentrati su qualcosa o qualcuno. Provando ad etichettare Simone Weil, potremmo dire, nella sostanza, che ella è “la filosofa dell’attenzione”. Infatti per Simone Weil, l’attenzione è una categoria essenziale, un concetto centrale, che va oltre il semplice atto di concentrarci su qualcosa.

Cosa intende esattamente Simon Weil? 

L’attenzione è una disposizione dell’animo di apertura totale alla realtà dell’altro, senza pregiudizi e senza forzature.

L’attenzione è un atto di amore totale in grado di accogliere l’altro nella sua totalità. Non si tratta di un atto poderoso di volontà, ma di sola acquisizione: “io ricevo l’altro così com’è” come massima disponibilità.

Portiamo un esempio: Sento bussare alla porta; è piena notte. Siamo nel 1941, tra persecuzioni e proibizioni a causa del nazismo. Apro: mi si presenta davanti una bambina ebrea che piange: ha bisogno di cibo, acqua e di protezione.  Come agiresti? Accetteresti di proteggerla col rischio di essere ucciso?

Oppure venderesti la bambina all’aguzzino in cambio di un beneficio?

L’attenzione è un atto decisivo di accoglienza, di giustizia, di coraggio, di pazienza, di attesa.  

Simone Weil paragona l’attenzione alla preghiera. Chi è veramente attento si svuota del proprio ego per entrare in contatto con la verità più profonda dell’esistenza.

Attendere e attenzionare hanno lo stesso significato in Weil.  La sua opera intitolata “L’attesa di Dio”, (pubblicata postuma nel 1950) indica proprio questo passaggio obbligato: Per arrivare alla verità (a Dio), occorre attendere. Non si tratta di attendere il treno alla stazione, o un amore non corrisposto. Stiamo parlando di una attesa attiva e non passiva. Alla fermata dell’autobus io attendo passivamente. Essere davanti a Dio o alla stazione non è proprio la stessa cosa. Weil elabora col suo libro una vera meditazione: L’attesa è sempre attenzionata, attiva, una maniera per avvicinarsi a Dio e al significato dell’altro.  L’attesa non è un fatto temporaneo, ma è una condizione esistenziale che muove ogni attimo della nostra vita.


di Fabio Squeo

giovedì 20 marzo 2025

Problematicità e mistero dell’essere nella relazione di esistenza

Gabriel Marcel (1989-1973)

 

Se per molti esistenzialisti atei, l’uomo esiste nella problematicità e si definisce mano a mano in una dimensione senza senso e senza scopo, con Gabriel Marcel l’esistenza non è più un problema, ma un dono. Questo fatto, chiaramente, ci dice che siamo davanti a un filosofo credente, religioso.

Gabriel Marcel è stato considerato il maggior esponente del contemporaneo “esistenzialismo cristiano”. Per i non addetti ai lavori, può sembrare una volgarità.  Se non vi piace Esistenzialismo cristiano, sostituite le due parole con “il mistero dell’essere”.

Dunque, Marcel è il filosofo del mistero dell’essere. Egli nasce a Parigi il 7 dicembre 1889 e muore a Parigi nel 1973.  All’età di quattro anni perde la madre. A diciotto anni consegue il diploma superiore e si laurea in filosofia alla Sorbona di Parigi nel 1907.  All’origine del processo conoscitivo vi è la ricerca filosofica attorno all’essere, al suo concetto; una indagine rigorosa che porta chiaramente ad una problematizzazione.

Cosa ne viene fuori?

Il problema. Se problematizzo su Dio, Dio diventa l’oggetto del mio problema. Se problematizzo sulla mia coscienza, la mia coscienza ne è l’oggetto del problema. Ad avviso di Gabriel Marcel non è proprio così.

Secondo Marcel, una indagine attorno al problema dell’essere, non può sussistere. L’Essere, dirà Marcel, non rappresenta un problema, ma un mistero. 

Che cosa è un problema?

Il problema è qualcosa che può essere analizzato, misurato, quantificato e risolto con strumenti matematici. L’Essere non è una equazione, non è un calcolo algebrico divisibile, scomponibile o frazionabile.   Il problema è qualcosa di risolvibile anche con la calcolatrice.

In altre parole, la categoria dell’Essere non rientra nel problema perché l’oggetto del problema (l’Essere) non è affrontabile in maniera “oggettiva”. Questo accade perché all’interno dell’essere, ci sono io con il mio essere che domanda. Ancora meglio: All’interno dell’essere, il soggetto si pone la domanda sull’essere che è (il soggetto medesimo) lo stesso essere.  Quindi, ad avviso di Marcel, l’oggetto della domanda riguarda anche il suo soggetto. Ergo soggetto e oggetto sono strettamente in relazione.

Con Ciò Marcel, prende già da subito le distanze da Cartesio, tra la res cogitans e la res extensa (tra la realtà pensante e la realtà fisica). In Cartesio avviene una separazione che in Marcel non avviene. In questa unità, all’interno di questo nodo di relazione soggetto-oggetto che si espleta il mistero. Il mistero dell’essere avviene come un atto puramente comprensivo, a mio avviso intuitivo: Il mistero è qualcosa in cui io mi trovo coinvolto, compreso, nel problema dell’essere: ed ciò mi impedisce di avere una chiara distinzione tra l’io e l’oggetto.

L’essere umano, dice Marcel, vive in una dimensione di questo tipo: È proprio questo “coinvolgimento dell’essere nell’essere stesso” che risveglia il mistero dell’Essere. Il mistero dunque è dell’homo viator, in cammino sulla via della com-partecipazione.

Non si nasce mai soli; incontriamo sempre il volto dell’altro sulla via dell’essere; mai dobbiamo disabituarci all’idea di aprirci a una dimensione intima e col mio mondo. Perché il mio mondo è anche il tuo. L’essere delle nostre domande è lo stesso essere su cui poggia la nostra esistenza. Questo ci ha insegnato Gabriel Marcel.


           di Fabio Squeo

mercoledì 19 marzo 2025

Auguri, papà

 

Caro papà,

oggi si celebra la tua festa. Io sono felice per questo anche se per me tu sei importante in ogni minuto della mia vita.

Il tuo ruolo nel mio mondo d’amore potrebbe apparirti secondario rispetto a quello della mamma, ma ti assicuro che non è assolutamente così!

I miei pochi anni mi chiedono di più la presenza di mamma, ma questo non vuol dire che non ho bisogno di te. Devi sapere che noi piccoli non abbiamo ancora imparato a fare le differenze. Non siamo in grado di avere una misura d’amore che ci permette di fare confronti.

Ti faccio un esempio. Tra i miei giocattoli trovo il leone, la giraffa, l’elefante. Ognuno di questi è bello e mi piace. Non capisco perché mi dovrebbe piacere di più la giraffa rispetto al leone. Entrambi sono miei ed esistono per farmi contento.

Sarebbe sciocco dire che non mi piace la giraffa perché ha il collo lungo, poiché diversamente non sarebbe più una giraffa. Oppure, sarebbe ancor più sciocco dire che non mi piace il leone perché fa paura; se non fosse così, non sarebbe un leone. Quindi ogni presenza ai miei occhi è bella e importante soltanto per il suo essere.

Non ti far ingannare da alcuni miei atteggiamenti. Mi fai ridere quando ti vedo preoccupato perché traduci qualche mia reazione come un gesto rifiuto. Noi bambini abbiamo i nostri tempi e le relative necessità.

Ora, papà, ti svelo un segreto. I bambini hanno dei modi naturali di comportarsi che l’adulto razionale giustifica negativamente. Ti ricordi quando tentavo di colpire con la testa il tuo viso? Ovviamente, tu e mamma mi avete rimproverato e riconosco che dovevate farlo! Però, sai perché lo facevo?

Per puro amore! Ti stupirai, ma è la verità.

Prima di giustificare questa risposta, voglio chiederti: quali sono i modi che ha un bambino per esprimersi e farsi capire, tenendo conto che non è ancora in grado di manifestare in chiaro le proprie necessità, ansie o paure?

Gli adulti conoscono un’infinità di parole eppure non si intendono, figurati come potrebbe farlo un bambino che mozzica le poche parole sentite un po’ qua e un po' là!  Di sicuro, pronuncio con chiarezza soltanto due parole: mamma e papà; tutte le altre sono ancora in costruzione.

Ora, però, ti sto scrivendo usando le parole del nonno. Così, tramite lui posso darti la spiegazione per le mie testate e ogni altro comportamento strano che ho assunto (compreso il lancio del peso finito malauguratamente su un posto sbagliato).

Lo sai cosa fanno i cuccioli dei leoni quando incontrano il loro padre? Li prendono a testate? Credi che vogliono fare del male? 

Per il leoncino è inconcepibile che il suo gesto possa provocare danni o suscitare una dura reazione del papà. Egli è convinto che l’enorme forza e autorevolezza del genitore sia la garanzia della sua immunità e quindi certezza di docile accettazione della birichinata. Pertanto, le testate del leoncino sono da interpretare semplicemente una ingenua provocazione del piccolo che intende provare l’amore del papà leone. Inoltre, il papà leone sarebbe stupido se prendesse sul serio le testate del leoncino e reagirebbe con una zampata pericolosa sul visino del cucciolo.

L’altra cosa che fa arrabbiare anche mamma riguarda il lancio degli oggetti. Non immagini come mi diverto vedendo le vostre facce sorprese!

Non credi che sia un bel modo che ho inventato per richiamare la vostra attenzione?

Ecco, noi bambini usiamo modi semplici per attirare attenzione. Beh, può succedere che qualche oggetto finisca nel posto sbagliato (come, per esempio sullo schermo della televisione), ma è dovuto al fatto che non siamo giocolieri, capaci di destinare con precisione il lancio.

Ho notato il tuo viso dispiaciuto, papà Scusami.

Il nonno mi dice che tutti i papà sono ponti silenziosi che uniscono le sponde di fiumi agitati. Sostengono il peso del loro compito con dedizione e lo fanno senza tanta scena. Loro si accontentano della gioia di preparare in discrezione un futuro luminoso per i loro figli.

Nel giorno della sua festa, il pensiero rivolto al papà è un riconoscere il suo impegno per rendere la strada della vita dei propri figli priva di ostacoli, ora e in futuro.

Grazie, papà.

martedì 18 marzo 2025

Il ruolo dei geni paterni nei figli

 

Il ruolo del padre è cambiato molto negli ultimi decenni. Negli anni '60 era raro crescere in una famiglia monogenitoriale: solo il 10% dei bambini veniva cresciuto solo dalle proprie madri. Oggi, si stima che fino al 40% dei bambini venga cresciuto principalmente dalle proprie madri.

Senza una figura paterna, i bambini hanno meno probabilità di avere stabilità finanziaria quando crescono, meno probabilità di andare bene a scuola e persino di avere un vocabolario più limitato rispetto ai bambini i cui padri sono presenti! Per non parlare delle implicazioni per la salute emotiva e spirituale generale.

In uno studio del 2015 su Nature Genetics, gli scienziati hanno scoperto che l'espressione di migliaia di geni diversi nei topi cambiava a seconda del genitore da cui provenivano. Circa il 60% dei geni dei padri erano più espressivi di quelli delle madri.

In altre parole, prendi metà del tuo DNA da ciascun genitore, ma il modo in cui quel materiale genetico si presenta effettivamente non è diviso a metà. Questa è una delle cose più note che i padri trasmettono ai loro figli per chiunque sappia qualcosa di genetica.

I bambini ricevono una combinazione di cromosomi da entrambi i genitori, ma le donne hanno solo cromosomi X e quindi possono trasmettere solo un cromosoma sessuale "X" alla loro prole.

Gli uomini hanno cromosomi XY e quindi possono trasmettere un cromosoma "X" (che accoppiato all'altro "X" darà origine a una femmina) o trasmettere un cromosoma "Y" (che darà origine a un maschio).

Purtroppo, non tutto il materiale genetico determina solo se avrai il naso di tua madre, il mento di tuo padre o i famosi capelli pazzi di tuo nonno.

Gli uomini portatori del cromosoma Y hanno il 50% in più di probabilità di avere malattie cardiache e possono trasmetterle ai figli (non è una bella notizia).

Ma, poiché si trova solo sul cromosoma Y, i papà non possono dare lo stesso rischio alle figlie.

Gli uomini anziani che soffrono di schizofrenia o ADHD hanno maggiori probabilità di trasmetterle ai figli. È interessante notare che ciò accade ai padri anziani a causa del modo in cui il loro DNA cambia con l'età. Poiché le donne nascono con tutti i loro ovuli per tutta la vita, il DNA che trasmettono ai figli non cambia nel tempo.

Fortunatamente, l'infertilità non impedisce necessariamente alle persone di diventare genitori.

I padri che concepiscono tramite fecondazione in vitro dovrebbero sapere che i loro figli hanno maggiori probabilità di lottare contro l'infertilità, secondo uno studio del Journal of Human Reproduction.

I geni maschili per la salute dentale sono espressi più di quelli di tua madre. Ma questo potrebbe essere un bene; se tua madre ha dovuto mettere l'apparecchio, ma i denti di tuo padre sono immacolati, è meno probabile che tu abbia bisogno di cure dentistiche.

 

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