lunedì 28 luglio 2025

Fuori dalla brina emotiva

 

Complimentarsi è anche un modo di essere in società con bellezza e gioia. Dimostri di vivere bene, di essere in pace con te stesso. In più, apprezzi la compagnia e la gratifichi con il tuo interesse.

I complimenti fanno sempre bene. Alcuni restano indimenticabili e altri deludenti.

Certo, "Hai un bell'aspetto" va bene, ma è banale.

Ora, se qualcuno ti dice "Solo vederti mi illumina la giornata", il tuo umore finisce al cielo e per un po’ di tempo ti senti super.

Oppure, quando una persona a cui tieni ti dice che ti ama, non per qualcosa che hai detto o fatto, l’effetto è altrettanto sublime e ti sorprende (anche se sai di essere amato).

In un mondo in cui l'amore può sembrare condizionato e l'approvazione è legata alle azioni, l'apprezzamento puro per ciò che è, piuttosto che per ciò che fai, è raro quanto bello.

Quando, da giovane insegnante, incontravo colleghe per le quali nutrivo simpatia ed amicizia non lesinavo a complimentarmi per qualunque cosa e in qualunque occasione. L’ambiente scolastico, austero, rendeva ancora più spettacolare la mia propensione a complimentarmi.

Non mi serviva incontrare la bellezza standard, quella dei rotocalchi femminili, mi bastava il sorriso e uno sguardo amichevole perché mi sfuggisse la mia frase d’occasione.

Dicevo: “Oggi, non è soltanto il sole a splendere!”

Per risposta, ricevevo il sorriso magico … quello che sostituisce il semplice “grazie”.

Ne esistevano le brutte giornate, perché anche col cielo grigio, c’era sempre modo di far gioire qualcuno.

Dicevo: “Oggi, sei tu il sole!” – oppure – “Brilli come una candela al buio!”  - o anche -“Dai luce a chi vede poco!”

Confesso che con il tempo, non potevo permettermi l’indifferenza perché sarebbe stata tradotta in “qualcosa che non va” nella mente delle mie amiche e colleghe.

Ma per me, complimentarmi era un modo di salutare e rinnovare la mia stima verso le persone disposte a condividere amicizia e allegria.

Purtroppo, in alcuni casi si corre il rischio di essere frainteso, ma questo poco m’importava.

Ho tentato, senza molto successo, di sollevare l’anima anche a colleghi musoni. Dal loro aspetto si capiva che era in procinto di scoppiare la terza guerra mondiale.

In una occasione, mi rivolsi ad uno di questi, così: “Per quanto venderesti un sorriso?”

Non c'è da stupirsi che a stento riuscivo a sbrinarlo dal freddo emotivo in cui era avvolto.

È così semplice e naturale approcciarsi con la gentilezza e il sorriso, ma in una società diffidente in cui tutto mira a un utile, o un vantaggio, questo atteggiamento suscita diffidenza.

Ed eccoci trasformati da umani a zombi.

domenica 27 luglio 2025

I mostri non nascono, lo diventano

 

Non ti immagineresti mai quella figura nella stanza: immobile, fredda, in attesa. Forse è stato il destino a portarla lì.

Laura, di fronte, aveva l’assassino 37 giovani coppie, lasciando i loro piccoli soli ad affrontare il mondo. Aveva pochi minuti per scoprire perché, non come detective o giornalista, ma come qualcuno che cerca di capire cosa trasforma una persona in un serial killer.

Quell’uomo lo aveva immaginato diverso: qualcuno con un sorriso gelido, occhi penetranti. Ma non c'era niente di tutto ciò. Era solo un vecchio sulla sessantina. Capelli radi. Sprofondato sulla sedia. Sbatteva lentamente le palpebre, fissando il vuoto, come se fosse stanco di essere visto.

Una luce fluorescente tremolava sopra la testa di Laura. Ma dentro di lei ... le emozioni turbinavano come un tornado assordante. Poteva sentire il suo battito cardiaco martellare, e temeva che potesse farlo anche lui. Paura, rabbia, dubbio... e soprattutto, una curiosità impellente: cosa spinge qualcuno a fare quello che ha fatto?

Trascorsero alcuni secondi in silenzio.

"Perché?" chiese infine, appena un sussurro.

Sospirò: "È proprio questa la domanda, eh?"

Ci fu un lungo silenzio.

Si appoggiò allo schienale. Non era sicura che lui avrebbe mai risposto.

Poi le parlò. Non per confessare, non per giustificare, ma forse per svuotare la mente di qualcosa.

"Non ho iniziato con un omicidio. Avevo iniziato perché avevo dolore ... e non sapevo come esistere senza il dolore. Così l'ho dato via."

Laura non provò compassione, ma quelle parole le fecero male. Come sentire il dolore parlare la sua lingua madre.

"Ma perché sceglievi genitori come tue vittime? Hai mai pensato al tipo di vita che avrebbero avuto i loro figli?"

"Quando stai annegando, ti importa chi trascini con te?"

Laura non voleva rispondere.

Nemmeno lui se l'aspettava. Continuò.

"Mia madre mi chiudeva in cantina quando piangevo. Diceva che dovevo imparare a comportarmi bene. Non avevo nemmeno dieci anni..."

Deglutì a fatica, come se le parole fossero più pesanti del previsto.

"Mio padre? Mi usava per scaricare la sua frustrazione, nei rari giorni in cui era abbastanza sobrio da alzarsi in piedi. Non credo che mi vedesse come una persona. Solo un sacco da boxe, il motivo per cui la sua vita non funzionava."

Fermò, gli occhi fissi in un punto dove non si riusciva a vedere.

"Volevo solo giocare. Essere un bambino. Ma gli altri non lasciavano che i loro figli si avvicinassero a me. Se ne andavano dal parco quando arrivavo, o mi fissavano finché non me ne andavo. Chiudevano la porta se mi vedevano sul marciapiede."

La sua voce si abbassò.

"Pensavano tutti che fossi un mostro. E così lo sono diventato."

Laura non aveva parole. Sentiva il suo dolore ma non voleva ammetterlo ... a lui ... o a lei stessa. Trascorsero alcuni minuti in silenzio. Pensò di uscire per dargli spazio e prendere le distanze. Ma una domanda la premeva come una spina nel fianco. Non poteva andarsene senza chiederglielo.

"Hai mai voluto smettere?"

Ridacchiò – non per conforto, ma qualcosa di più vicino all'impotenza – poi abbassò lo sguardo. Forse stava cercando le parole giuste. Forse stava solo evitando di affrontare la domanda.

La donna non osò interromperlo. Rimase immobile... proprio come faceva da bambina, svegliandosi nel cuore della notte, bloccata a letto, convinta che qualcosa si nascondesse nell'oscurità. Un piccolo movimento, un suono, e avrebbe capito che era lì.

Finalmente parlò.

"Era l'unica cosa che mi faceva provare qualcosa. Fermarmi significava affrontare chi ero. E non pensavo che a quel punto fosse rimasto niente."

Quelle parole risuonarono più di una qualsiasi lezione di vita o filosofia vissuta prima.

La porta si aprì. Il tempo era passato. La polizia lo portò via.

Mi guardò negli occhi... per la prima volta direttamente. E poi, da qualche parte nel profondo di lui, giunsero due parole inaspettate.

"Grazie. Grazie"

Lei non capì perché.

Forse era gratitudine, che riaffiorava negli ultimi giorni della sua vita.

O forse... ero stata la prima persona ad ascoltarlo abbastanza a lungo... da permettergli finalmente di lasciar andare ciò che aveva seppellito per decenni.

Laura abbandonò il posto immutata esteriormente, ma riorganizzata, disorientata interiormente.

I mostri non nascono. Vengono messi alle strette, spogliati e spinti a diventare mostri.

sabato 26 luglio 2025

Coltivare il pensiero critico

 

Il pensiero critico, una competenza profondamente radicata nelle tradizioni filosofiche occidentali, è stato il fondamento dell'innovazione, della democrazia e del progresso per secoli. Eppure, mentre affrontiamo le complessità del XXI secolo, questa capacità un tempo preziosa sembra perdere la sua presa sulla coscienza collettiva.

Dalle aule scolastiche alle sale riunioni, la capacità di ragionare, analizzare e mettere in discussione è spesso messa in ombra da reazioni impulsive, disinformazione e pensiero di gruppo. Il declino del pensiero critico in Occidente non è solo una preoccupazione accademica astratta, ma una crisi culturale con conseguenze concrete. Cosa sta causando questa spirale discendente e, soprattutto, cosa possiamo fare per invertirla?

Per capire cosa stiamo perdendo, dobbiamo prima riflettere sulle origini del pensiero critico. L'antica Grecia è spesso considerata la culla di questo approccio intellettuale, grazie a pensatori come Socrate, Platone e Aristotele. Socrate, con le sue domande penetranti, mise in discussione i presupposti e spinse i suoi seguaci a cercare la verità piuttosto che accontentarsi di risposte facili. Il suo metodo socratico, una forma di dialogo argomentativo cooperativo, pose le basi del ragionamento occidentale.

Avanzando rapidamente fino all'Illuminismo, il pensiero critico tornò al centro dell'attenzione. Filosofi come John Locke, Immanuel Kant e Voltaire enfatizzarono la ragione come strumento per comprendere il mondo e migliorare le condizioni umane. Queste idee ispirarono rivoluzioni, progressi scientifici e l'ascesa di ideali democratici.

Ma con la crescente complessità delle società, anche le richieste alle capacità cognitive individuali aumentarono. Le competenze che un tempo permettevano alle masse di partecipare alla governance e all'innovazione sono ora in declino. Perché? Perché la vita moderna ha introdotto distrazioni, distorsioni e una serie di fallimenti sistemici che minano la nostra capacità di pensare in modo critico.

Nell'era digitale, la tecnologia è al tempo stesso una meraviglia e una minaccia. Pur offrendo un accesso alle informazioni senza precedenti, favorisce anche un ambiente in cui il pensiero critico può essere facilmente aggirato. Con i social media, ad esempio, le persone vengono bombardate da contenuti di piccole dimensioni progettati per evocare reazioni emotive piuttosto che risposte ponderate.

Pensate a come funzionano gli algoritmi. Danno priorità al coinvolgimento, il che spesso significa mostrare agli utenti contenuti che rafforzano le loro convinzioni. Invece di esplorare diverse prospettive, le persone finiscono in camere di risonanza, dove le loro opinioni vengono raramente messe in discussione. Questo fenomeno non si limita solo alla politica, ma è pervasivo in ogni aspetto della vita, dai consigli sulla salute alle scelte dei consumatori.

Ancora peggio, l'enorme quantità di informazioni disponibili online può essere opprimente. Di fronte a infinite opzioni, molte persone optano per la via più semplice: fidarsi dei titoli, scorrere i contenuti e accettare le opinioni popolari senza esaminarle. Questa cultura del "cercalo su Google e dimenticatene" ha eroso la nostra capacità di analizzare e sintetizzare informazioni complesse.

Sebbene non sia certamente vero per tutte le scuole e le regioni, il sistema educativo occidentale, un tempo campione di esplorazione intellettuale, è diventato sempre più una fabbrica di conformismo. In molte scuole, la creatività e il pensiero indipendente sono soffocati da programmi rigidi e da test ad alto rischio. Agli studenti viene insegnato a memorizzare i fatti piuttosto che a metterli in discussione, lasciando poco spazio al processo caotico e iterativo del pensiero critico.

Perché questo accade? In parte perché le scuole sono sottoposte a un'enorme pressione per produrre risultati misurabili. I punteggi dei test, i tassi di laurea e le ammissioni universitarie sono spesso considerati gli indicatori finali del successo. Di conseguenza, gli insegnanti si concentrano sull'insegnamento in funzione del test, istruendo gli studenti sulle risposte "giuste" invece di incoraggiarli a porre domande migliori.

Ma il problema va più a fondo dei semplici metodi di insegnamento. Molti insegnanti non hanno la formazione o le risorse necessarie per integrare efficacemente il pensiero critico nelle loro lezioni. E con la riduzione dei budget, i programmi che promuovono la risoluzione creativa dei problemi, come i club di filosofia, i gruppi di dibattito e l'apprendimento basato su progetti, sono spesso i primi a scomparire.

Un altro fattore significativo nel declino del pensiero critico è il crescente predominio del ragionamento emotivo. In un'epoca caratterizzata da politiche identitarie e polarizzazione culturale, molte persone prendono decisioni basate sui sentimenti piuttosto che sui fatti. Sebbene le emozioni siano una parte naturale della cognizione umana, possono offuscare il giudizio se non controllate.

Si consideri l'attuale stato del dibattito pubblico. Invece di impegnarsi in dibattiti profondi, gli individui spesso si ritirano nei loro campi ideologici, liquidando i punti di vista opposti come non validi o maliziosi. Questa mentalità del "noi contro loro" alimenta il tribalismo, dove la lealtà verso un gruppo prevale sull'analisi oggettiva.

I social media non hanno fatto altro che esacerbare questo problema. Piattaforme come X (ex Twitter) e Facebook prosperano sull'indignazione, premiando i post che generano forti reazioni emotive con "Mi piace", condivisioni e commenti. Col tempo, questo crea un circolo vizioso in cui le persone sono condizionate a dare valore alle argomentazioni emotive rispetto a quelle logiche.

I media, un tempo fonte attendibile di informazione, svolgono ora un ruolo controverso nell'erosione del pensiero critico. Sebbene ci siano ancora giornalisti impegnati a scoprire la verità, molte testate giornalistiche privilegiano il sensazionalismo rispetto alla sostanza. Perché? Perché le storie sensazionalistiche generano clic, e i clic generano entrate.

Si consideri il modo in cui le notizie vengono spesso formulate. I titoli sono pensati per attirare l'attenzione, non per informare. Le storie a volte sono esagerate o estrapolate dal contesto per provocare rabbia o paura. E gli esperti, il cui compito dovrebbe essere quello di fornire analisi ponderate, spesso riducono questioni complesse a slogan e slogan.

Questo contesto rende sempre più difficile per la persona media distinguere i fatti dalla finzione. Persino coloro che desiderano pensare in modo critico possono trovarsi sopraffatti dall'enorme quantità di informazioni contrastanti. Senza fonti chiare e affidabili, molte persone semplicemente si arrendono e ricorrono a scorciatoie cognitive.

Il declino del pensiero critico ha implicazioni di vasta portata. A livello sociale, mina la democrazia, che dipende da una cittadinanza informata e coinvolta. Quando le persone non mettono in discussione i propri leader o non chiedono conto alle istituzioni, la corruzione e l'incompetenza prosperano.

Sul posto di lavoro, la mancanza di pensiero critico soffoca l'innovazione e la capacità di risolvere i problemi. I dipendenti che non sono in grado di analizzare i problemi o di pensare in modo creativo hanno meno probabilità di sviluppare nuove soluzioni o di adattarsi alle circostanze mutevoli.

A livello personale, scarse capacità di pensiero critico possono portare a decisioni sbagliate, che si tratti di cadere in una truffa, diffondere disinformazione o fare scelte finanziarie imprudenti. Nel tempo, questi fallimenti individuali si sommano, creando una cultura di mediocrità e opportunità mancate.

Cosa dobbiamo fare a riguardo?

La buona notizia è che il declino del pensiero critico non è irreversibile. Con uno sforzo concertato, possiamo ricostruire questa competenza essenziale e creare una società che privilegia la ragione rispetto alla retorica. Come?  

Uno dei modi migliori per coltivare il pensiero critico è incoraggiare la curiosità intellettuale. Ciò significa creare spazi in cui le persone si sentano al sicuro per esplorare nuove idee, porre domande e commettere errori. Che si tratti di club del libro, gruppi di discussione o programmi di mentoring, dobbiamo riaccendere la scintilla della curiosità che alimenta il pensiero critico.

Sebbene la tecnologia non sia intrinsecamente negativa, un eccessivo affidamento su di essa può ostacolare il pensiero critico. Per contrastare questo fenomeno, le persone possono stabilire dei limiti, ad esempio limitando il tempo trascorso davanti a uno schermo o disintossicandosi regolarmente dal digitale. Anche pratiche di consapevolezza, come la scrittura di un diario o la meditazione, possono aiutare le persone a riconnettersi con i propri pensieri interiori e a elaborare le informazioni in modo più profondo.

Infine, i leader di tutti i settori – governo, economia, istruzione – devono modellare il pensiero critico nei loro processi decisionali. Dimostrando un impegno verso la ragione, le prove e l'apertura mentale, possono ispirare gli altri a fare lo stesso. Un futuro costruito sul pensiero critico

Invertire il declino del pensiero critico in Occidente non sarà un'impresa ardua, ma è un obiettivo che vale la pena perseguire. Immaginate una società in cui le persone ascoltano per capire piuttosto che per rispondere, in cui i dibattiti portano a soluzioni piuttosto che a situazioni di stallo, e in cui il progresso è guidato da analisi ponderate piuttosto che da reazioni impulsive. Questa è la promessa del pensiero critico, ed è una promessa che possiamo ancora mantenere. 

venerdì 25 luglio 2025

Purtroppo, sono fatto così!


 

Sei seduto di fronte a un amico, con il cuore che batte un po' più forte del solito. Hai rivissuto questo momento nella tua testa cinque volte, forse di più.

"Ehi", inizi cautamente, "Volevo dirti una cosa. Ciò che mi hai detto prima ... mi ha davvero ferito".

L’amico non chiede chiarimenti. Si limita ad alzare le spalle e dice: "Scusa. Sono fatto così".

Magari aggiunge: "Sono solo onesto".

E così, la conversazione si spegne.

Rimani seduto con lo stesso nodo di dolore, ma ora con un ulteriore strato di colpa, come se avessi sbagliato a tirarlo fuori.

Quella frase, "sono fatto così", viene lanciata via come uno scudo. Un modo rapido per bloccare qualsiasi possibilità di crescita prima ancora che inizi.

Ma se non fosse affatto uno scudo?

Se quel "sono fatto così" non fosse un punto fisso? Se fosse qualcosa che puoi smontare?

Liquidare la questione dicendo "Scusa, ma sono fatto così", in apparenza, sembra onesto. Autentico. Persino innocuo.

Ma ecco la verità: Il più delle volte, non è onestà. È un'armatura.

La usiamo per giustificare la nostra astuzia, schivare la vulnerabilità, giustificare vecchie abitudini o rifugiarci dietro schemi che non ci sono più utili.

Non perché siamo segretamente orgogliosi di queste caratteristiche, ma perché il solo pensiero del cambiamento ci sembra totalmente opprimente. E la permanenza, anche se scomoda, spesso sembra più facile.

Ma cosa succede se quella semplice frase sta facendo più male che bene?

La tua personalità non è un codice preimpostato. È un insieme di strategie, alcune scelte consapevolmente, altre ereditate dalla nostra educazione, la maggior parte assorbite inconsciamente lungo il percorso.

Diventiamo ciò che siamo adattandoci a ciò che ci ha tenuti al sicuro, a ciò che ci ha fatto guadagnare elogi e a ciò che ci ha aiutato a sentirci a nostro agio nel mondo.

E col tempo, questi adattamenti si consolidano. Si calcificano. Smettiamo di vederli come scelte fluide fatte molto tempo fa. E così ci auto definiamo.

Non devi rinchiuderti in una versione rigida di chi sei. Puoi espanderti. Puoi aggiungere. Puoi persino prendere in prestito dalle persone che ti circondano, non per essere una loro copia carbone, ma per modellarti deliberatamente con intenzione.

Ti è lecito guardare la gentilezza quotidiana di qualcuno, il suo coraggio silenzioso o la sua incrollabile fiducia in sé stesso e pensare: "Vorrei essere così". Questo non ti rende falso. Ti rende intenzionale.

Cogliamo continuamente dei tratti di personalità senza nemmeno accorgercene. Farlo di proposito significa coinvolgere la nostra consapevolezza.

Non devi nascere con queste qualità, come se fossero preinstallate. Puoi sceglierli. Provarli. Vedere come ti senti veramente quando li incarni. E se una non ti si addice? Nessun problema. Sostituiscila.

Ci costruiamo allo stesso modo. Non con un unico grande gesto. Non da zero, tormentandoci su ogni dettaglio. Ma pezzo per pezzo, attimo per attimo, tratto preso in prestito dopo tratto preso in prestito finché un giorno, ti guardi allo specchio e capisci: questa non è più una collezione casuale. È una versione di te che sembra solida. Autenticamente vera. E profondamente, unicamente tua.

Alcune caratteristiche nascono dall'amore e dalla connessione. Altre nascono da meccanismi di difesa. Ma alla fine, sei tu quello che tiene i pezzi.

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