giovedì 8 maggio 2025

La mamma scrive alla sua briciola d'amore

 

 

Ho aspettato nove mesi per conoscerti. 

Ho immaginato il tuo viso ancor prima che tu nascessi. 

Tu, con quegli occhioni blu, mi sei apparsa in sogno e mi hai donato il tuo primo sorriso.

Eri così bella, dolce e candida che io e papà non potevamo non chiamarti BIANCA.

Papà non ci credeva ma io, dopo quel sogno, avevo già la certezza del tuo arrivo. 

Quando eri nella mia pancia, hai percepito tutti i miei stati d’animo, le mie paure, le mie difficoltà.

Se ero felice, tu facevi le capriole.

Se ero triste, mi accarezzavi.

Se mi sentivi soffrire per la mia asma, tu eri lì, pronta a tranquillizzarmi, dicendomi: “Tranquilla mamma, andrà tutto bene!”.

A quei colpi di tosse che ti spaventavano, rispondevi con il timido calcetto, ricordandomi: "Mamma sono con te!"

Anche il momento del parto non è stato semplice per noi. 

Quel brutto cordone, stringendoti il petto, ti faceva soffrire, ma tu sei stata fortissima perché la voglia di conoscerci era più forte della natura stessa.

Abbiamo unito le forze come solo noi sappiamo fare e finalmente sei nata. 

Finalmente ho ascoltato il tuo primo pianto.

Finalmente ho sentito il tuo profumo e ammirato i tuoi occhioni blu.

In quel momento, c’è stata l’esplosione di vita, l’emozione più grande, il pianto di gioia, l’orgoglio di avercela fatta, la FELICITÀ. 

Qualche ora di distanza da te, mi ha fatto crescere l’ansia di rivederti, anche se ero distrutta e provata.

Sei tornata da me e ci siamo coccolate, nutrite del nostro amore. 

Quello ci bastava per stare bene. 

Non sei una bimba che pretende tutte le attenzioni, perché già sapevi, fin da quando eri in pancia, che sarebbe stato difficile per la tua mamma dividersi tra te e il tuo fratellino.

Oggi, spesso rimani lì, ferma, che ci guardi, mentre papà ed io ci imbattiamo nei “terribili due anni” del tuo fratellino. 

Ed anche allora non mancano i tuoi sorrisi di comprensione che spesso sono di conforto.

Tu sei molto di più di una neonata, molto di più di una bimba di pochi mesi, sei il nostro sole, la nostra forza, la nostra adrenalina.

Io e papà ringraziamo ogni giorno la vita per averti con noi e aver reso più completa la nostra bellissima famiglia.

❤️ la tua mamma, Sonia♥️

mercoledì 7 maggio 2025

Dalla follia alla resurrezione: la filosofia dell’anima

 

Nel campo della letteratura del Novecento emerge una figura inconfondibile: una poetessa dalle forti emozioni, le sue poesie risuonano ancora nell’anima e nella carne di chi legge. Questa poetessa ha attraversato mille peripezie e con la sua voce ha cantato l’inno della fragilità dell’essere umano. Le sue opere poetiche vanno lette non come semplici poesie, ma come un testamento lirico, con una forma di filosofia incarnata: un viaggio nel mondo della poesia che si traduce come una riflessione sull’esistenza.

Mi riferisco alla poesia di Alda Merini. Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano in viale Papiniano n. 57, all'angolo con via Fabio Mangone e muore il 1 novembre del 2009, lasciando ai milanesi e al mondo una eredità poetica molto potente. Il destino, dal canto suo, volle comunque far coincidere il giorno della sua nascita con lo stesso giorno in cui si è celebrata la giornata Mondiale della Poesia: un segno quasi profetico per colei che sarebbe diventata una delle voci più originali della letteratura italiana contemporanea.

Alda Merini era nata in una famiglia modesta della piccola borghesia milanese, Il padre Nemo Merini, era un dipendente di una agenzia di assicurazioni “Le assicurazioni Generali”; mentre la madre Emilia Painelli, era un’umile casalinga. Nonostante le difficoltà economiche, la famiglia assegnava un valore importante alla cultura e all’educazione. Fin da giovane, Alda Merini, non ha mai nascosto il suo talento per la scrittura. 

La Merini stessa ha spesso raccontato di aver vissuto un’infanzia tranquilla e semplice. Intorno ai quindi anni visse due esperienze particolarmente forti: amara la prima, dolce la seconda: Come prima esperienza, Alda Merini, tenta di accedere al liceo classico Parini di Milano, uno dei più prestigiosi della città, ma qui fu respinta all’esame di ammissione: non per mancanza di capacità, ma per una sola insufficienza in italiano. L’esperienza della bocciatura fu per lei molto dolorosa, tant’è che la ricordava in molte interviste con una certa amarezza. Tuttavia, la bocciatura al liceo classico non segnò un fallimento, bensì fu il preludio di una nuova storia d’amore con la scrittura, un nuovo percorso creativo autonomo e fuori dagli schemi.

Alda Merini fu una poetessa autodidatta che trovò la sua voce al di là delle istituzioni culturale e accademiche. La seconda esperienza che Merini ci ricorda è quella che possiede il dolce epilogo: sempre intorno ai quindici anni, grazie alla conoscenza del professor Giacinto Spagnoletti, le sue prime poesie furono pubblicate, rivelando al mondo una voce già matura. Lei racconta di essere stata felicissima per aver ottenuto una recensione dal professore, tant’è che corse dall’amato padre per condividere tutta la sua gioia.

Il professor Giacinto Spagnoletti, oltre a essere un grande umanista e studioso del pensiero, era anche un ottimo scopritore di talenti: fu infatti uno dei primi a riconoscere le qualità artistiche della giovane Alda Merini. Negli anni ’50 e ’60, Alda Merini viene ricoverata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano per sintomi compatibili al disturbo bipolare. Anche se, tengo a precisare che, non esiste una data ufficiale in cui ad Alda Merini fu diagnosticato il disturbo bipolare, perché tra gli anni cinquanta e sessanta la terminologia psichiatrica era differente da come la intendiamo oggi. 

Infatti, io parlo di “sintomi compatibili” alla malattia, senza dover definire la malattia. Sta di fatto che Alda Merini alternava momenti di intensa creatività, iperattività e senso di onnipotenza con momenti di profonda depressione e crisi interiore. Divenne instabile emotivamente, aveva visioni, deliri, paranoie, momenti di oscurità della mente. Il referto medico dell’epoca parlava di una “psicosi maniaco-depressiva”, che sarebbe il vecchio nome del “disturbo bipolare”.

Dunque, con grande dispiacere, nel 1964, avvenne il vero e primo ricovero di Alda Merini. Venne ricoverata presso l’Ospedale Psichiatrico “Paolo Pini” di Milano, una delle principali strutture manicomiali italiane dell’epoca. Questi ricoveri verranno menzionati e ricordati per tutta la vita per la brutalità dei trattamenti.   

I trattamenti a cui fu sottoposta erano elettroshock, sedativi, pasticche di contenimento, ricoveri prolungati. I pazienti di questo ospedale erano spesso trattati più come internati e non come malati. Le degenze duravano anni e la struttura tendeva ad annullare l’identità della persona. I ricoverati venivano spogliati dei propri effetti personali, rasati e uniformati. Il contatto con le famiglie era limitato o inesistente.

La poesia, nel manicomio, fu il suo modo di sopravvivere, anche se le era spesso impedito di scrivere. In seguito, nella raccolta di poesia “La terra Santa” del 1984, trasformò questa esperienza manicomiale in poesia, con versi duri, profondamente umani e visionari. 

Lei scrive:          “Il manicomio è una grande prova,

      è un lungo esercizio di pazienza.

      È una scuola di dolore e di rabbia

      ma anche di grande sapienza.

      Là dentro non si è mai soli,

      anche se si è disperati.

      La solitudine è un lusso

      concesso ai sani.

      Ma noi che siamo al di là

      della frontiera del male,

      abbiamo conosciuto il silenzio

      come abisso,

      e la parola

     come resurrezione”.

Questa sua poesia mostra la capacità di Alda Merini di rovesciare e trasformare il trauma in poesia. Il manicomio non è solo un luogo di dolore, ma una esperienza limite che mette a nudo la verità della persona. Per lei scrivere era salvarsi dal dolore. Secondo Alda Merini, l’esperienza del manicomio non è solo un luogo di prova esistenziale, dove la sofferenza annulla l’essere: ma al contrario, lo richiama alla vita. 

In questa poesia, Alda Merini non va alla ricerca della commiserazione o della pietà, né racconta o spiega il suo bipolarismo in termini clinici. Offre una visione etica e poetica allo stesso tempo. Con questa poesia, la poetessa rompe qualunque silenzio e riafferma l’umanità anche in quei luoghi austeri e senz’anima dove ogni cosa può essere negata. 

In Merini la poesia diventa filosofia vissuta: non solo attraverso concetti astratti, ma tramite l’esperienza diretta. La sua scrittura, anche dopo la sua morte, resiste al tempo e combatte contro l’oblio dell’anima in un mondo sempre più omogeneo e disumanizzato. 

Alda Merini, dunque, non è solo una vita straordinaria capace di emozionare, ma è sopra ogni cosa una filosofa dell’anima, capace di interrogare la verità con la stessa luminosità della poesia. Come una filosofa, scava nell’essere umano con la parola poetica, è afferra con mano le perle della sofferenza, della malattia mentale, dell’amore, della maternità, della solitudine, di Dio.

Scriverà in una delle sue poesie: “La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”.

Cosa vuole insegnarci Alda Merini? Alda Merini ci lascia un messaggio di speranza e di amore: Non dobbiamo vergognarci davanti al dolore, perché esso può trasformarci in conoscenza, in valore umano e spirituale. E non dobbiamo temere la poesia. La poesia deve conoscerci; essa deve esprimersi nel cuore di ognuno di noi, laddove il mondo ci vorrebbe tutti zitti. 

Estratto dal libro "Lo sguardo nel tempo della filosofia" di Fabio Squeo

martedì 6 maggio 2025

Incontrare l’altro è incontrare Dio (Martin Buber)


In un periodo storico segnato da guerre mondiali, mutamenti sociali, il pensiero di Martin Buber si presenta come un invito al recupero del dialogo tra gli esseri umani. 

Martin Buber nasce l’8 febbraio del 1878 a Vienna e muore il 13 giugno del 1965 a Gerusalemme. Filosofo, pedagogista e teologo ebreo conosciuto per aver lavorato ad una visione “relazionale” dell’esistenza. Spieghiamo meglio dopo.

Vediamo anzitutto chi è: Osservando il filosofo in una delle sue fotografie o autoritratti, lo sguardo si posa, inevitabilmente, sulla sua folta barba che richiama un lontano sapore: quello della tradizione sapienziale ebraica. Alle spalle di questa immagine quasi biblica si nasconde un pensatore originale e profetico capace di ridare una nuova voce alla filosofia.

Martin Buber trascorse la sua infanzia a Leopoli, attuale Ucraina, ma si formò presso diversi istituti universitari: all’università di Vienna iniziò i suoi studi, interessandosi di Filosofia, filologia, letteratura e storia; poi seguì Lipsia, Berlino e Zurigo. A Zurigo, ultima tappa, oltre ad approfondire la filosofia, conobbe la sua futura moglie. Durante questi anni di studio e approfondimenti, sviluppò un forte interesse per il misticismo e chassidismo ebraico (movimento di massa ebraico, sorto nel XVIII secolo in Europa orientale, che si basa sul rinnovamento spirituale dell'ebraismo ortodosso).

Si avvicinò alla mistica ebraica così tanto da doverla poi, in un secondo momento, integrarla alla sua vita personale e spirituale. Secondo Buber, l’adesione alla mistica non voleva dire allontanarsi dalla realtà di tutti i giorni, o viaggiare di fantasia: al contrario. La mistica, per Martin Buber, era una vera e propria fonte alla quale abbeverarsi: non solo sul piano intellettuale, ma anche su quello esistenziale e spirituale. Buber la considerava non solo come una fonte, ma come una via, una strada per scoprire la presenza di una sacralità in ogni azione.  Stessa cosa vale per il Chassidismo ebraico. Nel Chassidismo egli trovò una mistica profondamente incarnata: una spiritualità calata nella vita delle relazioni umane. Come egli stesso sintetizza: “Ogni Tu autentico è un incontro con Dio”.

Questa frase esprime uno dei concetti centrali della filosofia di Martin Buber: dice brevemente che la vita spirituale di una persona non può essere separata dalla vita della relazione con l’altro. La nostra vita interiore non è ritiro, chiusura. È apertura. Ogni volta che incontriamo un altro essere umano – dice Buber, intendendolo come un “TU” – stiamo entrando, in qualche modo in relazione con Dio. Con questo, Buber, non vuole solo farci intendere una presenza di Dio che scaturisce nel mondo; quando ci apriamo pienamente ad un altro essere - riconoscendolo nella sua unicità - ascoltandolo nel profondo, rispettandone il vissuto (bello o brutto che sia) - si manifesta qualcosa di eccezionale: un risuono di Dio, una eco, una presenza d’amore. Addirittura, ad un certo punto, dice Buber, in quella stessa relazione, noi smettiamo di “parlare di Dio”, per “parlare a Dio”.

Quale differenza c’è?  Parlare di Dio significa trattarlo come un oggetto, come un’idea da analizzare, da confutare. La stessa Storia della Filosofia lo riduce a manualistica. Dice Buber, Dio non è un concetto filosofico che deve essere compreso, ma un TU che va incontrato. Ridurre Dio a un concetto o a formula matematica significa instaurare con un lui non un rapporto autentico di IO – TU, ma di IO – ESSO, dove Dio è messo a distanza, lontano da te; Nel suo libro Io-Tu, lo scrive chiaramente:

“Chi guarda il mondo con la modalità dell’Io-Esso non incontra Dio. Ma chi guarda con gli occhi del Tu, in ogni Tu che dice, si avvicina a Dio. Perché Dio è il Tu eterno”.

Quando Dio viene spiegato viene al contempo guardato “da fuori”, come un oggetto da osservare. Solo nell’esperienza Io-tu, possiamo parlare a Dio. Ciò significa entrare all’interno di una relazione viva personale, proprio come ci si rivolge a un TU che ci interpella e ci accompagna. Facciamo un esempio: Se spiego cos’è l’amore alla mia fidanzata, uso parole, definizioni, concetti.  Ma quando amo la mia fidanzata, quell’esperienza vale più di mille spiegazioni.

Qual è il messaggio conclusivo che Martin Buber vuole trasmetterci?

Ogni relazione con l’altro è sacra. La vita trova il suo senso nell’incontro con l’altro, quando entriamo nella reciprocità del dialogo. Tutto questo significa per Buber vivere concretamente il mistero eterno di Dio Hic et Nunc

di Fabio Squeo

lunedì 5 maggio 2025

La verità mutevole


 

Da giovane studente amavo la filosofia per cui leggevo diversi autori con il proposito di ricercare una teoria da adottare, che mi convincesse veramente.

Succedeva però, che al termine dello studio di ogni autore, ero certo di aver trovato la chiave di lettura della vita.

Mi dicevo: “Questi hanno tutti ragione! Ma dov’è la verità assoluta?”

Ero dubbioso in tutto. Probabilmente, avevo bisogno di maturare di più?

Sono passati tanti anni e la teoria definitiva da adottare non sono riuscito a trovarla. Sebbene tante di loro mi sono piaciute, nessuna mi ha convinto fino a scartare tutte le altre. Ogni teoria ha un suo scorcio di verità e un’ombra da cancellare.

È chiaro che la verità assoluta nessuno può raccontarla, pur concedendo la bellezza delle idee prodotte e il fascino del pensato.

Ora sono convinto che la verità non è una destinazione che si raggiunge, ma un riflesso che inseguiamo, in continua evoluzione nelle increspature della percezione.

La verità è, e forse rimarrà per sempre, una verità sempre transitoria nella sua vera forma.

La verità non richiede sempre prove o spiegazioni. Esiste semplicemente, ma assume molteplici volti, plasmati dalla percezione. La stessa realtà può dare vita a diverse versioni della verità, poiché ogni individuo vede il mondo attraverso la propria lente. Le differenze individuali plasmano e colorano l'idea di verità, dandole un nuovo taglio, una sfumatura diversa da comprendere.

Prendiamo, ad esempio, una prostituta. Per lei, la verità potrebbe essere semplicemente la sopravvivenza: guadagnare, sfamare la sua famiglia, vivere una vita dignitosa senza mendicare. Potrebbe non esserci lussuria o piacere, solo una cruda necessità. Ma la società spesso sceglie di vedere la sua vita attraverso una cornice ristretta, etichettando il suo percorso come un percorso di lussuria, irresponsabilità o fallimento morale.

La società sbrigativamente giudica.

Non mi riferisco soltanto al pensiero bigotto o pregiudizievole di alcuni, includo anche coloro che sono pubblicamente etichettati come "rispettabili". Una donna medico, vigile, giudice, potrebbe trovarsi di fronte a sguardi indiscreti, a silenziosi assalti di lussuria patriarcale, nonostante ricopra una posizione di rispetto ed onore.

Questi esempi, traslati nella individuazione di una verità unica e giusta, ci dicono che la verità non appartiene solo all'individuo o alla società. Si trova da qualche parte nel mezzo: nell'equilibrio, non nel conflitto.

La verità non è statica. Trascende le generazioni, si evolve nel tempo e si adatta alle situazioni. Non possiamo permetterci di essere rigidi al riguardo, perché la rigidità si incrina sotto la complessità.

In questo mondo di miraggi mutevoli, forse la cosa più vera che possiamo fare è rimanere flessibili, aperti e continuare a cercare.

Solo allora potremo cominciare ad avvicinarci al significato della verità.

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