mercoledì 7 maggio 2025

Dalla follia alla resurrezione: la filosofia dell’anima

 

Nel campo della letteratura del Novecento emerge una figura inconfondibile: una poetessa dalle forti emozioni, le sue poesie risuonano ancora nell’anima e nella carne di chi legge. Questa poetessa ha attraversato mille peripezie e con la sua voce ha cantato l’inno della fragilità dell’essere umano. Le sue opere poetiche vanno lette non come semplici poesie, ma come un testamento lirico, con una forma di filosofia incarnata: un viaggio nel mondo della poesia che si traduce come una riflessione sull’esistenza.

Mi riferisco alla poesia di Alda Merini. Alda Merini nasce il 21 marzo 1931 a Milano in viale Papiniano n. 57, all'angolo con via Fabio Mangone e muore il 1 novembre del 2009, lasciando ai milanesi e al mondo una eredità poetica molto potente. Il destino, dal canto suo, volle comunque far coincidere il giorno della sua nascita con lo stesso giorno in cui si è celebrata la giornata Mondiale della Poesia: un segno quasi profetico per colei che sarebbe diventata una delle voci più originali della letteratura italiana contemporanea.

Alda Merini era nata in una famiglia modesta della piccola borghesia milanese, Il padre Nemo Merini, era un dipendente di una agenzia di assicurazioni “Le assicurazioni Generali”; mentre la madre Emilia Painelli, era un’umile casalinga. Nonostante le difficoltà economiche, la famiglia assegnava un valore importante alla cultura e all’educazione. Fin da giovane, Alda Merini, non ha mai nascosto il suo talento per la scrittura. 

La Merini stessa ha spesso raccontato di aver vissuto un’infanzia tranquilla e semplice. Intorno ai quindi anni visse due esperienze particolarmente forti: amara la prima, dolce la seconda: Come prima esperienza, Alda Merini, tenta di accedere al liceo classico Parini di Milano, uno dei più prestigiosi della città, ma qui fu respinta all’esame di ammissione: non per mancanza di capacità, ma per una sola insufficienza in italiano. L’esperienza della bocciatura fu per lei molto dolorosa, tant’è che la ricordava in molte interviste con una certa amarezza. Tuttavia, la bocciatura al liceo classico non segnò un fallimento, bensì fu il preludio di una nuova storia d’amore con la scrittura, un nuovo percorso creativo autonomo e fuori dagli schemi.

Alda Merini fu una poetessa autodidatta che trovò la sua voce al di là delle istituzioni culturale e accademiche. La seconda esperienza che Merini ci ricorda è quella che possiede il dolce epilogo: sempre intorno ai quindici anni, grazie alla conoscenza del professor Giacinto Spagnoletti, le sue prime poesie furono pubblicate, rivelando al mondo una voce già matura. Lei racconta di essere stata felicissima per aver ottenuto una recensione dal professore, tant’è che corse dall’amato padre per condividere tutta la sua gioia.

Il professor Giacinto Spagnoletti, oltre a essere un grande umanista e studioso del pensiero, era anche un ottimo scopritore di talenti: fu infatti uno dei primi a riconoscere le qualità artistiche della giovane Alda Merini. Negli anni ’50 e ’60, Alda Merini viene ricoverata per un mese nella clinica Villa Turro a Milano per sintomi compatibili al disturbo bipolare. Anche se, tengo a precisare che, non esiste una data ufficiale in cui ad Alda Merini fu diagnosticato il disturbo bipolare, perché tra gli anni cinquanta e sessanta la terminologia psichiatrica era differente da come la intendiamo oggi. 

Infatti, io parlo di “sintomi compatibili” alla malattia, senza dover definire la malattia. Sta di fatto che Alda Merini alternava momenti di intensa creatività, iperattività e senso di onnipotenza con momenti di profonda depressione e crisi interiore. Divenne instabile emotivamente, aveva visioni, deliri, paranoie, momenti di oscurità della mente. Il referto medico dell’epoca parlava di una “psicosi maniaco-depressiva”, che sarebbe il vecchio nome del “disturbo bipolare”.

Dunque, con grande dispiacere, nel 1964, avvenne il vero e primo ricovero di Alda Merini. Venne ricoverata presso l’Ospedale Psichiatrico “Paolo Pini” di Milano, una delle principali strutture manicomiali italiane dell’epoca. Questi ricoveri verranno menzionati e ricordati per tutta la vita per la brutalità dei trattamenti.   

I trattamenti a cui fu sottoposta erano elettroshock, sedativi, pasticche di contenimento, ricoveri prolungati. I pazienti di questo ospedale erano spesso trattati più come internati e non come malati. Le degenze duravano anni e la struttura tendeva ad annullare l’identità della persona. I ricoverati venivano spogliati dei propri effetti personali, rasati e uniformati. Il contatto con le famiglie era limitato o inesistente.

La poesia, nel manicomio, fu il suo modo di sopravvivere, anche se le era spesso impedito di scrivere. In seguito, nella raccolta di poesia “La terra Santa” del 1984, trasformò questa esperienza manicomiale in poesia, con versi duri, profondamente umani e visionari. 

Lei scrive:          “Il manicomio è una grande prova,

      è un lungo esercizio di pazienza.

      È una scuola di dolore e di rabbia

      ma anche di grande sapienza.

      Là dentro non si è mai soli,

      anche se si è disperati.

      La solitudine è un lusso

      concesso ai sani.

      Ma noi che siamo al di là

      della frontiera del male,

      abbiamo conosciuto il silenzio

      come abisso,

      e la parola

     come resurrezione”.

Questa sua poesia mostra la capacità di Alda Merini di rovesciare e trasformare il trauma in poesia. Il manicomio non è solo un luogo di dolore, ma una esperienza limite che mette a nudo la verità della persona. Per lei scrivere era salvarsi dal dolore. Secondo Alda Merini, l’esperienza del manicomio non è solo un luogo di prova esistenziale, dove la sofferenza annulla l’essere: ma al contrario, lo richiama alla vita. 

In questa poesia, Alda Merini non va alla ricerca della commiserazione o della pietà, né racconta o spiega il suo bipolarismo in termini clinici. Offre una visione etica e poetica allo stesso tempo. Con questa poesia, la poetessa rompe qualunque silenzio e riafferma l’umanità anche in quei luoghi austeri e senz’anima dove ogni cosa può essere negata. 

In Merini la poesia diventa filosofia vissuta: non solo attraverso concetti astratti, ma tramite l’esperienza diretta. La sua scrittura, anche dopo la sua morte, resiste al tempo e combatte contro l’oblio dell’anima in un mondo sempre più omogeneo e disumanizzato. 

Alda Merini, dunque, non è solo una vita straordinaria capace di emozionare, ma è sopra ogni cosa una filosofa dell’anima, capace di interrogare la verità con la stessa luminosità della poesia. Come una filosofa, scava nell’essere umano con la parola poetica, è afferra con mano le perle della sofferenza, della malattia mentale, dell’amore, della maternità, della solitudine, di Dio.

Scriverà in una delle sue poesie: “La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”.

Cosa vuole insegnarci Alda Merini? Alda Merini ci lascia un messaggio di speranza e di amore: Non dobbiamo vergognarci davanti al dolore, perché esso può trasformarci in conoscenza, in valore umano e spirituale. E non dobbiamo temere la poesia. La poesia deve conoscerci; essa deve esprimersi nel cuore di ognuno di noi, laddove il mondo ci vorrebbe tutti zitti. 

Estratto dal libro "Lo sguardo nel tempo della filosofia" di Fabio Squeo

martedì 6 maggio 2025

Incontrare l’altro è incontrare Dio (Martin Buber)


In un periodo storico segnato da guerre mondiali, mutamenti sociali, il pensiero di Martin Buber si presenta come un invito al recupero del dialogo tra gli esseri umani. 

Martin Buber nasce l’8 febbraio del 1878 a Vienna e muore il 13 giugno del 1965 a Gerusalemme. Filosofo, pedagogista e teologo ebreo conosciuto per aver lavorato ad una visione “relazionale” dell’esistenza. Spieghiamo meglio dopo.

Vediamo anzitutto chi è: Osservando il filosofo in una delle sue fotografie o autoritratti, lo sguardo si posa, inevitabilmente, sulla sua folta barba che richiama un lontano sapore: quello della tradizione sapienziale ebraica. Alle spalle di questa immagine quasi biblica si nasconde un pensatore originale e profetico capace di ridare una nuova voce alla filosofia.

Martin Buber trascorse la sua infanzia a Leopoli, attuale Ucraina, ma si formò presso diversi istituti universitari: all’università di Vienna iniziò i suoi studi, interessandosi di Filosofia, filologia, letteratura e storia; poi seguì Lipsia, Berlino e Zurigo. A Zurigo, ultima tappa, oltre ad approfondire la filosofia, conobbe la sua futura moglie. Durante questi anni di studio e approfondimenti, sviluppò un forte interesse per il misticismo e chassidismo ebraico (movimento di massa ebraico, sorto nel XVIII secolo in Europa orientale, che si basa sul rinnovamento spirituale dell'ebraismo ortodosso).

Si avvicinò alla mistica ebraica così tanto da doverla poi, in un secondo momento, integrarla alla sua vita personale e spirituale. Secondo Buber, l’adesione alla mistica non voleva dire allontanarsi dalla realtà di tutti i giorni, o viaggiare di fantasia: al contrario. La mistica, per Martin Buber, era una vera e propria fonte alla quale abbeverarsi: non solo sul piano intellettuale, ma anche su quello esistenziale e spirituale. Buber la considerava non solo come una fonte, ma come una via, una strada per scoprire la presenza di una sacralità in ogni azione.  Stessa cosa vale per il Chassidismo ebraico. Nel Chassidismo egli trovò una mistica profondamente incarnata: una spiritualità calata nella vita delle relazioni umane. Come egli stesso sintetizza: “Ogni Tu autentico è un incontro con Dio”.

Questa frase esprime uno dei concetti centrali della filosofia di Martin Buber: dice brevemente che la vita spirituale di una persona non può essere separata dalla vita della relazione con l’altro. La nostra vita interiore non è ritiro, chiusura. È apertura. Ogni volta che incontriamo un altro essere umano – dice Buber, intendendolo come un “TU” – stiamo entrando, in qualche modo in relazione con Dio. Con questo, Buber, non vuole solo farci intendere una presenza di Dio che scaturisce nel mondo; quando ci apriamo pienamente ad un altro essere - riconoscendolo nella sua unicità - ascoltandolo nel profondo, rispettandone il vissuto (bello o brutto che sia) - si manifesta qualcosa di eccezionale: un risuono di Dio, una eco, una presenza d’amore. Addirittura, ad un certo punto, dice Buber, in quella stessa relazione, noi smettiamo di “parlare di Dio”, per “parlare a Dio”.

Quale differenza c’è?  Parlare di Dio significa trattarlo come un oggetto, come un’idea da analizzare, da confutare. La stessa Storia della Filosofia lo riduce a manualistica. Dice Buber, Dio non è un concetto filosofico che deve essere compreso, ma un TU che va incontrato. Ridurre Dio a un concetto o a formula matematica significa instaurare con un lui non un rapporto autentico di IO – TU, ma di IO – ESSO, dove Dio è messo a distanza, lontano da te; Nel suo libro Io-Tu, lo scrive chiaramente:

“Chi guarda il mondo con la modalità dell’Io-Esso non incontra Dio. Ma chi guarda con gli occhi del Tu, in ogni Tu che dice, si avvicina a Dio. Perché Dio è il Tu eterno”.

Quando Dio viene spiegato viene al contempo guardato “da fuori”, come un oggetto da osservare. Solo nell’esperienza Io-tu, possiamo parlare a Dio. Ciò significa entrare all’interno di una relazione viva personale, proprio come ci si rivolge a un TU che ci interpella e ci accompagna. Facciamo un esempio: Se spiego cos’è l’amore alla mia fidanzata, uso parole, definizioni, concetti.  Ma quando amo la mia fidanzata, quell’esperienza vale più di mille spiegazioni.

Qual è il messaggio conclusivo che Martin Buber vuole trasmetterci?

Ogni relazione con l’altro è sacra. La vita trova il suo senso nell’incontro con l’altro, quando entriamo nella reciprocità del dialogo. Tutto questo significa per Buber vivere concretamente il mistero eterno di Dio Hic et Nunc

di Fabio Squeo

lunedì 5 maggio 2025

La verità mutevole


 

Da giovane studente amavo la filosofia per cui leggevo diversi autori con il proposito di ricercare una teoria da adottare, che mi convincesse veramente.

Succedeva però, che al termine dello studio di ogni autore, ero certo di aver trovato la chiave di lettura della vita.

Mi dicevo: “Questi hanno tutti ragione! Ma dov’è la verità assoluta?”

Ero dubbioso in tutto. Probabilmente, avevo bisogno di maturare di più?

Sono passati tanti anni e la teoria definitiva da adottare non sono riuscito a trovarla. Sebbene tante di loro mi sono piaciute, nessuna mi ha convinto fino a scartare tutte le altre. Ogni teoria ha un suo scorcio di verità e un’ombra da cancellare.

È chiaro che la verità assoluta nessuno può raccontarla, pur concedendo la bellezza delle idee prodotte e il fascino del pensato.

Ora sono convinto che la verità non è una destinazione che si raggiunge, ma un riflesso che inseguiamo, in continua evoluzione nelle increspature della percezione.

La verità è, e forse rimarrà per sempre, una verità sempre transitoria nella sua vera forma.

La verità non richiede sempre prove o spiegazioni. Esiste semplicemente, ma assume molteplici volti, plasmati dalla percezione. La stessa realtà può dare vita a diverse versioni della verità, poiché ogni individuo vede il mondo attraverso la propria lente. Le differenze individuali plasmano e colorano l'idea di verità, dandole un nuovo taglio, una sfumatura diversa da comprendere.

Prendiamo, ad esempio, una prostituta. Per lei, la verità potrebbe essere semplicemente la sopravvivenza: guadagnare, sfamare la sua famiglia, vivere una vita dignitosa senza mendicare. Potrebbe non esserci lussuria o piacere, solo una cruda necessità. Ma la società spesso sceglie di vedere la sua vita attraverso una cornice ristretta, etichettando il suo percorso come un percorso di lussuria, irresponsabilità o fallimento morale.

La società sbrigativamente giudica.

Non mi riferisco soltanto al pensiero bigotto o pregiudizievole di alcuni, includo anche coloro che sono pubblicamente etichettati come "rispettabili". Una donna medico, vigile, giudice, potrebbe trovarsi di fronte a sguardi indiscreti, a silenziosi assalti di lussuria patriarcale, nonostante ricopra una posizione di rispetto ed onore.

Questi esempi, traslati nella individuazione di una verità unica e giusta, ci dicono che la verità non appartiene solo all'individuo o alla società. Si trova da qualche parte nel mezzo: nell'equilibrio, non nel conflitto.

La verità non è statica. Trascende le generazioni, si evolve nel tempo e si adatta alle situazioni. Non possiamo permetterci di essere rigidi al riguardo, perché la rigidità si incrina sotto la complessità.

In questo mondo di miraggi mutevoli, forse la cosa più vera che possiamo fare è rimanere flessibili, aperti e continuare a cercare.

Solo allora potremo cominciare ad avvicinarci al significato della verità.

domenica 4 maggio 2025

La libertà come atto formativo (Luigi Pareyson)

Luigi Pareyson (1918-991)


Se la libertà, proviene da Dio, ed è la facoltà per eccellenza di scegliere tra il bene e il male ciò significa che anche Dio possiede questa libertà, avendo scelto irrevocabilmente il bene.

Questo è il sentiero che percorre il pensiero di Luigi Pareyson, filosofo italiano noto per il suo contributo originale alla filosofia della Libertà, all’estetica e all’ermeneutica.

Luigi Pareyson nasce il 4 febbraio del 1918 a Piasco, in provincia di Cuneo e muore a Milano nel 1991. Per la sua intelligenza si fece notare da Giovanni Gentile. Si laureò presso l’Università di Torino, in Filosofia, a soli ventun anni nel 1939. Scrisse una tesi dal titolo Karl Jaspers e la filosofia dell'esistenza, che poi venne pubblicata nel 1940 dall'editore Loffredo di Napoli. 

Dopo aver studiato in maniera approfondita il pensiero di Karl Jaspers, Pareyson ha sempre riconosciuto Karl Jaspers come uno dei suoi principali maestri e riferimenti di pensiero, assieme a Soren Kierkergaard e Martin Heidegger.

Egli è definito come il pensatore della libertà tragica, della creazione e della formazione. La sua filosofia ha avuto un grande impatto in Italia e all’estero. Di formazione cattolica, fu tra i primi a presentare l’esistenzialismo tedesco in Italia, sebbene non fosse l’unico filosofo ad averlo fatto. Nel contesto italiano, dove l’esistenzialismo aveva fatto ingresso grazie a pensatori di spicco come Nicola Abbagnano, Pareyson si distinse comunque per la tipologia di approccio al pensiero; vale a dire un pensiero particolareggiato e rigoroso.

Pur condizionato dall’esistenzialismo, Pareyson ha sempre cercato una direzione personalistica. Egli ha cercato, oltretutto, di fondere l’esistenzialismo con un’attenta riflessione sulla libertà. La sua pubblicazione principe è stata quella del 1954 intitolata “Estetica. Teoria della formatività”.

Egli propone una indagine sull’arte come atto formativo. Cosa si intende atto formativo? All’inizio può sembrare un parolone, ma Pareyson lo spiega diversamente. Ad avviso di Pareyson, produrre un’opera d’arte sarebbe come, per casualità, scoprire al buio due amanti che fanno “l’amore”. 

In altre parole, l’atto formativo è quel processo mediante cui la forma (artistica) nasce e si sviluppa liberamente, in un dialogo tra l’autore dell’opera e l’opera stessa.  Non si tratta imporre una certa idea sulla realtà, una forma pre-determinata su qualcosa, ma di scoprire quella forma mentre la stai creando, formando.

La forma dell’opera d’arte emerge durante questa fabbricazione, questo fare. Facciamo un esempio pratico.  Immagina uno scultore davanti a un blocco di marmo: Non ha in testa un modello da “copiare”; ha un’intuizione vaga, un’emozione da esprimere.  Inizia a scolpire, e mentre scolpisce, ascolta la materia: trova una crepa, cambia direzione. 

Se una venatura lo ispira la segue. Non impone, ma dialoga. Alla fine nasce una scultura unica, che non esisteva prima e che non poteva nemmeno essere prevista. È un risultato nuovo, frutto della comunione creativa tra l’artista e la materia.

Secondo Pareyson proprio in questo preciso istante si compie un atto eccezionale. Questa esperienza, dice Pareyson, non appartiene solo al mondo dell’arte, ma alla vita. Ogni azione umana vera, onesta, di buon cuore è già di per sé un “atto formativo”. 

Ecco che per Pareyson, vivere è come scolpire la propria esistenza. Ogni scelta che facciamo è un colpo di scalpello. Non abbiamo un copione da seguire, ma nemmeno partiamo dal nulla. Abbiamo una materia da lavorare fatta di incontri, di relazioni, di situazioni dove sperimentiamo persino l’amore e la libertà (due misteri meravigliosi), dove oltretutto e sopra ogni cosa, ogni nostra azione “forma” e “veste” l’anima che siamo.

Quindi, tornando al discorso sulla Libertà in Pareyson, possiamo dire che essa non è quel fare ciò che ci piace, ma - per le stesse ragioni già descritte – essa è un fatto di per sé “creativo”. Sei libero di scegliere, ma sei anche chiamato a dare “forma” al tuo carattere, alla tua personalità, alla tua vita.

Pareyson era un appassionato di Dostoevskij perché nei suoi personaggi l’essere umano era messo davanti alla responsabilità della propria libertà. Ivan, uno dei fratelli Karamazov, è un intellettuale tormentato, rigido e razionale. Rifiuta Dio perché non riesce ad accettare un mondo in cui il male e le ingiustizie padroneggiano. Non dice Dio non esiste, ma: “Io rifiuto di accettare un Dio che permette il male e la sofferenza”.  Dio ha dato all’uomo una libertà troppo pesante. Dice ancora: Gli uomini non vogliono la libertà, vogliono essere guidati e illusi. 

Se Dio non esiste - dice - “tutto è permesso” , senza accettare fino in fondo le conseguenze di questa affermazione. Suo fratello illegittimo, Smerdjakov, più debole ma influenzato da Ivan, commette un omicidio. Smerdjkow dice: “Tu mi hai insegnato che tutto è permesso”. 

Ivan non ha voluto l’omicidio, ma è stato complice con le sue idee e il suo silenzio. È qui che Dostoevskij – e Pareyson con lui – ci pongono davanti il cuore del problema: una libertà senza responsabilità è solo male. Ivan, per Pareyson, è un uomo che ha fallito nell’atto formativo. Ha fallito perché non si è assunto la responsabilità della propria libertà; ha fallito perché si è barricato nella sola teoria e analisi, ha fallito perché ha rifiutato il coinvolgimento con la verità e la responsabilità dell’altro. Arriva il colpo di scena: A fallire non è solo Ivan, Dice Pareyson: fallisce la libertà stessa.

Quando fallisce la libertà stessa?  La libertà fallisce quando rifiuta la verità. Quando pensate alla libertà non dimenticatevi della verità. Questo perché la libertà è una sorta di relazione viva e amorosa con la verità. La verità non si presenta mai come un comando autoritario: non si impone, si offre, si va avanti come chiamata. 

Quando pensi alla libertà e alla verità, immaginala come avere davanti una coppia di fidanzati: la libertà (lei) fallisce nella relazione quando non ama, si chiude in se stessa e non risponde alle chiamate o addirittura “nega” le chiamate alla verità (lui). Proprio come una relazione d’amore, la Libertà e la verità devono cercarsi, devono perdonarsi, e devono ritrovarsi. 

Cosa ci vuole dire Pareyson con questo rifermento a Dostoevskij? Pareyson non intende esibire la sua conoscenza su Dostoevskij per puro egocentrismo, ma intende farlo alla luce della sua filosofia sull’uomo, nella sua verità più profonda: L’uomo nasce radicalmente libero, ma questa libertà è drammatica. 

Perché è drammatica?  Perché egli è combattuto tra il bene e il male ed è chiamato alla responsabilità. 

La responsabilità è una verità che interpella, dice; cioè chiama le persone a prendere posizione, a “formarsi” nel confronto con essa. Dovete vedere la responsabilità non solo come un dovere morale, ma come un costitutivo essenziale della dimensione umana. In altre parole, l’essere umano è chiamato a formarsi costantemente, dove la verità e la libertà rappresentano un cammino che non si esaurisce mai, dove ogni decisone può avere il sapore del mare o della terra. 

 di Fabio Squeo

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