mercoledì 11 ottobre 2023

Il camice blu (di Giovanna Sgherza)


Nella fredda stagione invernale a Cosimino piaceva uscire di casa per andare a lavoro quando la luce dell’alba pian pianino prendeva il sopravvento sul buio cupo della notte.

L’orario scolastico non glielo imponeva ma lui preferiva fare tutto con calma e godersi i momenti tranquilli per iniziare una nuova giornata cogliendo, nelle piccole cose, la bellezza del suo lavoro.

Quando apriva il portone dell’Istituto, aule e corridoi dormivano ancora. Nel silenzio che regnava gli faceva compagnia il cinguettio dei passeri e, dopo pochissimi minuti, l’odore inebriante del caffè appena pronto nella moka.

Subito dopo toglieva cappotto e cappello, indossava il camice color blu scuro, si sfregava le mani per riscaldarle un poco, beveva la sua tazzina di caffè e si accingeva a controllare scrupolosamente che tutte le aule fossero pulite, ordinate, arieggiate e pronte ad accogliere gli alunni.

Poi, per non prendere freddo, indossava una pesante giacca di felpa, avvolgeva la sciarpa intorno al collo e dava una bella spazzata all’atrio della scuola che di notte il vento ricopriva spesso di foglie e cartacce.

Una bandiera tricolore primeggiava in alto accanto alla grande targa in alluminio che riportava a caratteri cubitali  il nome della scuola, lo stemma della Repubblica Italiana e la bandiera Europea.

Cosimino alzava gli occhi ogni mattina  e, guardando il simbolo dell’Italia,  si sentiva molto orgoglioso di far parte della istituzione scolastica.

Lui, che aveva appena sfiorato la crudeltà della guerra e avuto la fortuna di rivedere il padre tornare sano e salvo dal fronte, nutriva un forte spirito di patriottismo tanto da piangere commosso anche alla sola intonazione dell’inno nazionale.

Il ruolo di “bidello” non era certamente quello che aveva sperato da piccolo, quando sognava di diventare ufficiale dell’esercito, ma ormai alla veneranda età di 62 anni, si era rassegnato serenamente a compiere in modo diverso il suo dovere per la Patria.

Perché lui così lo concepiva.

Pensava (e non a torto): “il mio lavoro dà supporto agli insegnanti, al Ministero, alle famiglie e soprattutto ai piccoli alunni che da grandi frequenteranno le migliori Università del paese e diventeranno medici, ingegneri, avvocati, imprenditori che faranno il progresso dell’Italia.”

Spesso i pochi amici che aveva  lo prendevano in giro, facendogli notare che il suo era un mestiere quasi inutile; così Cosimino li aveva un po’ allontanati e si limitava a salutarli quando passava davanti al bar.

I veri amici erano, sembrava strano pensarlo, proprio gli alunni e gli insegnanti della scuola, con i quali quotidianamente scambiava pareri e  discorreva del più e del meno sempre nel rispetto dei ruoli e solo e soltanto quando non era impegnato in commissioni inerenti il suo lavoro.

Qualche volta faceva confusione con le materie insegnate dai docenti perché il sistema di insegnamento era cambiato da un po’ di tempo e invece lui si ostinava a pensare alla scuola elementare come a quella della  sua epoca.

Tuttavia conosceva alla perfezione i nomi di tutti i bambini che frequentavano le lezioni, la  provenienza, il mestiere dei genitori e, senza impicciarsi dei fatti loro, osservandoli si faceva un’idea di come fossero e si comportassero al di là della recinzione dell’istituto.

Raramente si sbagliava.

Aveva una capacità innata di cogliere il loro umore, la loro tristezza o la presenza di piccoli e grandi problemi, ma sempre con discrezione. Talvolta, i bambini più spigliati si confidavano con lui, cercando conforto da un adulto.

Cosimino sempre attento a non sconfinare nel pettegolezzo, elargiva consigli validi ma leggeri tanto da far diventare quasi un gioco o una piccola sfida ciò che all’età di nove/dieci anni poteva apparire un ostacolo insormontabile.

Il lunedì era poi il giorno dedicato alle “chiacchiere” sul campionato di calcio che coinvolgeva la maggior parte degli alunni di quarta e di quinta classe; ed infine in ogni ricorrenza nazionale e prima dei giorni di vacanza, che fosse Natale, Carnevale o Pasqua, era sempre contento di trascorrere quelle giornate speciali in armonia con la comunità scolastica prima di rientrare nella sua piccola dimora che lo accoglieva silenziosamente.

Insomma Cosimino amava la scuola e non solo perché gli permetteva di avere uno stipendio fisso: ormai per lui era diventata la vera casa e chi ci apparteneva la sua vera e unica famiglia.

Non si era mai assentato dal lavoro, tranne il giorno del funerale dei suoi genitori.

Perciò quella mattina quando il direttore arrivò a scuola prima del solito e trovò il cancello chiuso, rimase un po’ sorpreso ma non preoccupato.

Aprì il pesante uscio di ferro, poi il portone di legno, entrò in direzione  e dopo aver tirato su la tenda (cosa che faceva ogni mattina il ligio Cosimino) cercò il numero di telefono per chiamarlo.

Provò più volte ma dall’altra parte non ci fu risposta.

Intanto erano arrivati gli altri due collaboratori scolastici, due arzille signore che ormai da tempo tardavano sapendo che Cosimino le precedeva sempre.  L’attività scolastica entrò nel vivo della giornata con il suono della campanella e durante la ricreazione tutti si accorsero dell’assenza di Cosimino chiedendosi come mai non fosse presente.

Alle ore dodici inoltrate, appena riavuto un momento libero, il direttore compose ancora il numero di telefono, certo che Cosimino avrebbe risposto alla chiamata.

Invece nulla. Addirittura l’utente non risultava più raggiungibile.

Provò ancora tre quattro volte finché, ormai preoccupato, decise di andare a cercarlo a casa per assicurarsi che stesse bene.

Le finestre dell’appartamento a pianoterra erano aperte.

“Meno male” – pensò il direttore sospirando – “non sarà successo nulla di grave. Però almeno poteva avvisare che oggi non sarebbe venuto al lavoro”.

E suonò il campanello un po’ infastidito.

Cosimino aprì dopo pochi secondi ma non riconobbe l’uomo.

“Chi è lei? Chi desidera? Mia madre non è in casa e io sto studiando. Non so se posso farla entrare” – disse con voce ferma quasi scusandosi educatamente.

Il direttore restò per un istante ammutolito e pensò di aver sbagliato indirizzo. Ma l’uomo che gli aveva aperto la porta era proprio Cosimino, lo conosceva benissimo.

Per sicurezza, e con sguardo interrogativo sconcertato, gli chiese: “Sto cercando Cosimo Lazzari, so che abita qui. Sei tu Cosimino, non mi riconosci?”

“Non ti conosco affatto, chi sei?” – si sentì dire il direttore basito dall’incresciosa conversazione.

“Sono il direttore dell’Istituto. Sono qui per aiutarti” – incalzò sperando in una risposta positiva.

“Ah ecco. Allora entra pure, così puoi aiutarmi a risolvere il problema di geometria che mi sta tormentando da stamattina.”

Il direttore entrò nell’appartamento modesto ma ordinato e pulito e Cosimino lo invitò a sedersi.

Sul tavolo erano sparsi fogli e quaderni un po’ ingialliti dal tempo e un mucchio di vecchi libri era posato sulla sedia di legno.

“Allora” – continuò  fiducioso il bidello -  “se mi dai qualche suggerimento su come calcolare l’altezza di questo odioso trapezio, io continuo il problema che mi serve per prepararmi al concorso”.

Il direttore continuava sbalordito a non capirci nulla, e per assecondarlo, gettò lo sguardo sul foglio contenente  i dati del problema.

Poi vide in mezzo al libro di matematica una lettera sgualcita con un timbro postale di 40 anni prima e in un attimo capì cosa stava succedendo all’uomo accanto a lui.

Probabilmente all’improvviso Cosimino stava accusando il sintomo più comune del morbo di Alzheimer .

In quel momento credeva di avere 21 anni e di dover sostenere l’esame per entrare nell’esercito. Perciò non lo aveva riconosciuto, perché non si rendeva conto della sua età e di essere impiegato come collaboratore scolastico da moltissimi anni.

Pochi giorni dopo, il medico specialista purtroppo confermò quella diagnosi ipotizzata dal direttore.

Non era però un caso grave.

Cosimino aveva dei vuoti di memoria abbastanza brevi anche se repentini e, soprattutto se si recava come di consuetudine al lavoro, tutto sembrava tornare alla normalità.

Seppure a malincuore il direttore aveva informato chi di dovere e aveva chiesto, in base alla legge in vigore, di valutare l’integrazione lavorativa di Cosimino con un opportuno programma di sostegno e collocamento mirato.

Il bidello non lo sapeva, ma giorno dopo giorno l’assistente sociale  osservava attentamente i suoi comportamenti.

Dopo un mese di attenta sorveglianza e vari test neurologici, l’uomo poté essere riammesso al lavoro a tutti gli effetti con una leggera riduzione delle ore lavorative.

Cosimino continuò a indossare ogni mattina il suo devoto camice blu scuro, ad ammirare la bandiera italiana,  a salutare gli insegnanti e  i piccoli benvoluti alunni anche perché ormai la comunità scolastica non poteva più fare a meno di lui.

Quella diagnosi così spaventosa che cambia la vita non aveva assolutamente disciolto l’amore di Cosimino per la scuola: anzi, a detta degli esperti, si era rivelato forse la migliore medicina per convivere con un morbo che può colpire chiunque senza preavviso.

In nome della libertà



C'è qualcosa nello spirito umano che è fuori dalla razionalizzazione. Ciò che facciamo e ciò che pensiamo, sono solo l'ombra della stessa verità. Qualunque sia il motivo di ciò che facciamo e pensiamo, le due dimensioni della vita sono separate. Corrono fianco a fianco e non si incontrano mai.

Questi due aspetti del comportamento umano sono sempre esistiti e la filosofia ha dato loro involucri diversi. Dibattere su cosa sia meglio, cosa sia più importante per la nostra discussione, è solo una richiesta formale alla nostra logica.

Per esempio, è indiscutibile il valore della libertà, ma in nome di essa si commettono orribili delitti.

Credo che nessuna arma sia utile per la libertà. Non mi sentirei più libero con una pistola in mano.

Se libertà significa vita senza regole oppure diventa possibilità di ottenere qualunque cosa a discapito degli altri, è vero che qualcuno si sente limitato.

Sento il treno fischiare, posso tradurlo nella mia mente con mancanza di libertà. Il povero treno è costretto a correre sulla rotaia!

Non mancano mai le giustificazioni a chi confonde la libertà come mezzo per prevalere sulle coscienze o per calpestare le sensibilità di chiunque.

Se non si usa il cuore nelle relazioni, serviranno troppe cose per ritrovarsi libero.

 

martedì 10 ottobre 2023

Un approccio galante

Incontrai in un bar una meravigliosa donna. Non ebbi il tempo necessario per una qualunque mia reazione che subito dopo uscì dal bar e scomparve.

Due intere settimane dopo, entrai in quel bar ed eccola lì, tutta radiosa e luminosa, seduta da sola in un angolo del bar.

Accidenti, non la conoscevo ma avevo senso che mi era mancata! Mi sono seduto a un tavolo a poca distanza da lei. Volevo parlarle, ma mi mancava il coraggio. Grazie a Dio il caffè era quasi vuoto. Era un po' troppo presto perché l'orda di caffè-dipendenti facesse il suo ingresso.

Ho aspettato finché non è arrivato al tavolo il suo caffè. E poi ho atteso che il barista le portasse lo scontrino. Quando giunse quel momento, mi avvicinai a lei. Avevo la gola nodosa e serrata. Ogni passo che facevo, percepivo il mio cammino verso di lei sempre più lontano. Ma ho continuato a camminare. Il bar era vuoto; non c’era nessun pericolo di far scena imbarazzante.

-“Mi permetti di offrirti il caffè?”, chiesi quasi in punta di piedi.

-"Per qual motivo?" rispose la donna.

"Nessun motivo … se non quello avere il piacere e l’opportunità di conoscerti!" risposi, cercando di predisporla al meglio ad accettare il mio invito.

La donna si mostrò titubante e approfittai per espormi ancora di più:

-"Posso sedermi con te?"

"No, non puoi." Rispose decisa, ma io insistetti.

-"Oww... andiamo, solo per un minuto, okay?"

-"NO!"

Non potevo fare a meno di rimanere ipnotizzato dalla sua voce, ma in contrasto col mio solito modo di fare, non desistetti: dovevo parlarle. Sorrisi e dissi:

-“Guarda che non ti mangio mica! Volevo soltanto scambiare due parole approfittando della tua solitudine al tavolo.”

Riuscii a convincerla e accettare la mia conversazione. Ed allora che è iniziato tutto! Abbiamo cominciato a parlare e i minuti si allungavano a un ritmo davvero veloce. Ho avuto modo di conoscere moltissimo di lei e ho anche scoperto che aveva un grande senso dell'umorismo. Ci siamo divertiti molto a parlare fino a quando lei ha detto che doveva andare perché si stava facendo tardi.

Ci scambiammo i numeri di telefono e le chiesi se potevamo “incontrarci” di nuovo. Lei semplicemente sorrise e andò via.

Sospirai per la felicità. Mentre la guardavo allontanarsi, i miei occhi non volevano staccarsi dalla sua immagine.

 

Litigare è sintomo di debolezza interiore

Non credo nella violenza come mezzo per la risoluzione dei problemi. Credo però che la violenza sia lo strumento più immediato a cui si ricorre per rispondere ad un bisogno immediato di rivalsa.

La violenza spesso è accompagnata da rabbia, sia questa evidente o meno. Inoltre, conduce all’esasperazione dell’essere e al sovvertimento di tutte le regole dell’apparire.

In ultima analisi, arrabbiandosi si tira fuori ciò che realmente si è.

La rabbia è il sintomo che qualcosa di doloroso è stato scoperto; qualcuno, qualche parola ha toccato dei fili nervosi ad altissima tensione. Non importa della reale o presunta malattia, resta chiaro che il dolore è vero e insopportabile.

Tanto premesso, nei rapporti di coppia la violenza appare con la presunta impossibilità di comunicare a fondo le reciproche incomprensioni. Nei momenti di alta tensione nascono le motivazioni per cui si inizia a litigare; queste ottengono il supporto e ulteriori giustificazioni dalle grosse parole che volano nell’aria: più sono pesanti, più si vuole ferire. 

La battaglia si trasforma in un massacro delle relazione fino ad allora costruita.

Un po’ più tardi, sul campo di battaglia rimangono quelle parole che non avreste mai voluto dire e il pensiero che su qualcuno ricadrà il bilancio di una guerra non voluta. Si spera di rimediare pensando che con la quiete e i comuni buoni intendimenti possano cancellare l’accaduto. 

Dimenticare è la proprietà dell’essere buono che non si addice a protagonisti di battaglie senza esclusioni di colpi. I litiganti spesso firmano momentanei armistizi.

Concludendo, il litigio, sponsorizzato positivamente nelle storie d’amore, non è mai quel litigio che porta all’esasperazione dei rapporti, è soltanto una manifestazione di due modi di vedere la stessa realtà, ornati da due sorrisi quantunque ironici.  

Invece, nei casi in cui il litigio diventa una tragedia intima, in quei momenti, una riflessione si impone.

Siamo quasi 8 miliardi su questa terra, tutti diversi e tutti disponibili ad essere amati. 
 
 

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