Nel campo della letteratura del Novecento emerge una figura
inconfondibile: una poetessa dalle forti emozioni, le sue poesie risuonano
ancora nell’anima e nella carne di chi legge. Questa poetessa ha attraversato
mille peripezie e con la sua voce ha cantato l’inno della fragilità dell’essere
umano. Le sue opere poetiche vanno lette non come semplici poesie, ma come un
testamento lirico, con una forma di filosofia incarnata: un viaggio nel mondo
della poesia che si traduce come una riflessione sull’esistenza.
Mi riferisco alla poesia di Alda Merini. Alda Merini nasce il
21 marzo 1931 a Milano in viale Papiniano n. 57, all'angolo con via Fabio
Mangone e muore il 1 novembre del 2009, lasciando ai milanesi e al mondo una
eredità poetica molto potente. Il destino, dal canto suo, volle comunque far
coincidere il giorno della sua nascita con lo stesso giorno in cui si è
celebrata la giornata Mondiale della Poesia: un segno quasi profetico per colei
che sarebbe diventata una delle voci più originali della letteratura italiana
contemporanea.
Alda Merini era nata in una famiglia modesta della piccola
borghesia milanese, Il padre Nemo Merini, era un dipendente di una agenzia di
assicurazioni “Le assicurazioni Generali”; mentre la madre Emilia Painelli, era
un’umile casalinga. Nonostante le difficoltà economiche, la famiglia assegnava
un valore importante alla cultura e all’educazione. Fin da giovane, Alda
Merini, non ha mai nascosto il suo talento per la scrittura.
La Merini stessa
ha spesso raccontato di aver vissuto un’infanzia tranquilla e semplice. Intorno
ai quindi anni visse due esperienze particolarmente forti: amara la prima,
dolce la seconda: Come prima esperienza, Alda Merini, tenta di accedere al
liceo classico Parini di Milano, uno dei più prestigiosi della città, ma qui fu
respinta all’esame di ammissione: non per mancanza di capacità, ma per una sola
insufficienza in italiano. L’esperienza della bocciatura fu per lei molto
dolorosa, tant’è che la ricordava in molte interviste con una certa amarezza.
Tuttavia, la bocciatura al liceo classico non segnò un fallimento, bensì fu il
preludio di una nuova storia d’amore con la scrittura, un nuovo percorso
creativo autonomo e fuori dagli schemi.
Alda Merini fu una poetessa autodidatta che trovò la sua voce
al di là delle istituzioni culturale e accademiche. La seconda esperienza che
Merini ci ricorda è quella che possiede il dolce epilogo: sempre intorno ai
quindici anni, grazie alla conoscenza del professor Giacinto Spagnoletti, le
sue prime poesie furono pubblicate, rivelando al mondo una voce già matura. Lei
racconta di essere stata felicissima per aver ottenuto una recensione dal
professore, tant’è che corse dall’amato padre per condividere tutta la sua
gioia.
Il professor Giacinto Spagnoletti, oltre a essere un grande
umanista e studioso del pensiero, era anche un ottimo scopritore di talenti: fu
infatti uno dei primi a riconoscere le qualità artistiche della giovane Alda
Merini. Negli anni ’50 e ’60, Alda Merini viene ricoverata per un mese nella
clinica Villa Turro a Milano per sintomi compatibili al disturbo bipolare.
Anche se, tengo a precisare che, non esiste una data ufficiale in cui ad Alda
Merini fu diagnosticato il disturbo bipolare, perché tra gli anni cinquanta e
sessanta la terminologia psichiatrica era differente da come la intendiamo
oggi.
Infatti, io parlo di “sintomi compatibili” alla malattia, senza dover
definire la malattia. Sta di fatto che Alda Merini alternava momenti di intensa
creatività, iperattività e senso di onnipotenza con momenti di profonda
depressione e crisi interiore. Divenne instabile emotivamente, aveva visioni,
deliri, paranoie, momenti di oscurità della mente. Il referto medico dell’epoca
parlava di una “psicosi maniaco-depressiva”, che sarebbe il vecchio nome del
“disturbo bipolare”.
Dunque, con grande dispiacere, nel 1964, avvenne il vero e
primo ricovero di Alda Merini. Venne ricoverata presso l’Ospedale Psichiatrico
“Paolo Pini” di Milano, una delle principali strutture manicomiali italiane
dell’epoca. Questi ricoveri verranno menzionati e ricordati per tutta la vita
per la brutalità dei trattamenti.
I
trattamenti a cui fu sottoposta erano elettroshock, sedativi, pasticche di
contenimento, ricoveri prolungati. I pazienti di questo ospedale erano spesso
trattati più come internati e non come malati. Le degenze duravano anni e la
struttura tendeva ad annullare l’identità della persona. I ricoverati venivano
spogliati dei propri effetti personali, rasati e uniformati. Il contatto con le
famiglie era limitato o inesistente.
La poesia, nel manicomio, fu il suo modo di sopravvivere,
anche se le era spesso impedito di scrivere. In seguito, nella raccolta di
poesia “La terra Santa” del 1984, trasformò questa esperienza manicomiale in
poesia, con versi duri, profondamente umani e visionari.
Lei scrive: “Il manicomio è una grande prova,
è un lungo esercizio di pazienza.
È una scuola di dolore e di rabbia
ma anche di grande sapienza.
Là dentro non si è mai soli,
anche se si è disperati.
La solitudine è un lusso
concesso ai sani.
Ma noi che siamo al di là
della frontiera del male,
abbiamo conosciuto il silenzio
come abisso,
e la parola
come resurrezione”.
Questa sua poesia mostra la capacità di Alda Merini di
rovesciare e trasformare il trauma in poesia. Il manicomio non è solo un luogo
di dolore, ma una esperienza limite che mette a nudo la verità della persona.
Per lei scrivere era salvarsi dal dolore. Secondo Alda Merini, l’esperienza del
manicomio non è solo un luogo di prova esistenziale, dove la sofferenza annulla
l’essere: ma al contrario, lo richiama alla vita.
In questa poesia, Alda Merini
non va alla ricerca della commiserazione o della pietà, né racconta o spiega il
suo bipolarismo in termini clinici. Offre una visione etica e poetica allo
stesso tempo. Con questa poesia, la poetessa rompe qualunque silenzio e
riafferma l’umanità anche in quei luoghi austeri e senz’anima dove ogni cosa
può essere negata.
In Merini la poesia diventa filosofia vissuta: non solo
attraverso concetti astratti, ma tramite l’esperienza diretta. La sua
scrittura, anche dopo la sua morte, resiste al tempo e combatte contro l’oblio
dell’anima in un mondo sempre più omogeneo e disumanizzato.
Alda Merini,
dunque, non è solo una vita straordinaria capace di emozionare, ma è sopra ogni
cosa una filosofa dell’anima, capace di interrogare la verità con la stessa
luminosità della poesia. Come una filosofa, scava nell’essere umano con la
parola poetica, è afferra con mano le perle della sofferenza, della malattia
mentale, dell’amore, della maternità, della solitudine, di Dio.
Scriverà in una delle sue poesie: “La poesia non cerca seguaci, cerca amanti”.
Cosa vuole insegnarci Alda Merini? Alda Merini ci lascia un
messaggio di speranza e di amore: Non dobbiamo vergognarci davanti al dolore,
perché esso può trasformarci in conoscenza, in valore umano e spirituale. E non
dobbiamo temere la poesia. La poesia deve conoscerci; essa deve esprimersi nel
cuore di ognuno di noi, laddove il mondo ci vorrebbe tutti zitti.
di Fabio Squeo