domenica 23 marzo 2025

Sorprendiamoci

 

Rivolgi lo sguardo e l’attenzione a ciò che il miracolo di tutti i giorni produce!

L’emozione scaturisce dalla sorpresa.

La sorpresa del vivere!

Ascolta il forte stridore tra la materia definita e l’incertezza dell’anima.

La fredda stasi di ciò che è per quello che si vede … contro la convulsione dei moti dell’anima.

Il sentire con i sensi è un altro mondo rispetto al sentire con l’anima.

I rumori rivelati dai sensi sono ambigui, monotoni.

I rumori rivelati dall’anima si trasformano in sinfonie che ti trasportano lontano fino a perderti nel tempo, dove l’eternità acquista il suo significato.

La vita è un miracolo che si compie in ogni istante!

Sorprendiamoci di questo.

La sorpresa porta con sé il sorriso: la chiave che ci apre all’ottimismo.

L’ottimismo è il motore di ogni azione che ci spinge a partecipare ai miracoli quotidiani.

La speranza è l’ultima a morire, ma ti costringe ad aspettare lo stimolo di qualcuno o qualcosa.

Chissà quando e chissà come!

Aspettando troppo si rischia di morire prima della speranza.

L’energia è vita.

L’energia interiore è il miracolo della vita.

La natura ci dà un esempio brillante. I vulcani in eruzione rappresentano il massimo della forza, dell’imponderabile, dell’energia, del calore, della volontà di esserci sul pianeta.

Coltiviamo la nostra anima. Facciamo in modo che in noi alberghi un vulcano che sia continuamente in eruzione.

La lava è l’energia vitale che inonda chiunque si avvicini a noi.

Sperimenteremo il piacere di vivere ogni istante, per tutto l’arco del tempo che la biologia molecolare ci permette.

 

sabato 22 marzo 2025

La relazione empatica tra filosofia e spiritualità

Edith Stein (1891-1942)

Quando si vive una esistenza di amore si comprende meglio la dimensione dell’altro. L’altro diventa una promessa al servizio dell’amore stesso. Questo principio si arricchisce giorno dopo giorno; come se stessimo annaffiando un fiordaliso. È il caso di Edith Stein, una filosofa ebrea promotrice dell’amore verso la dignità della persona.

Edith Stein nasce a Breslavia il 12 ottobre del 1891 e muore il 9 agosto del 1942, nel campo di concentramento Auschwitz-Birkenau. La sua morte è considerata un martirio, motivo per cui fu canonizzata da Papa Wojtyla nel 1998. Le cronache biografiche dicono che sin da bambina mostrava una fluidità discorsiva senza pari. Appassionata di filosofia, a scuola i professori notarono subito le sue doti intellettuali.  La sorella la definì “straordinariamente pronta di ingegno”.

Nel 1916 si laurea in filosofia a Friburgo sotto la guida di Edmund Husserl, il padre della fenomenologia. Ma nonostante l’eccellente impegno universitario non otterrà mai una cattedra fissa in università a causa delle discriminazioni razziali imposte dal regime di Hitler. Nel 1933 abbandona le ricerche filosofiche, l’insegnamento, per abbracciare la spiritualità: diventa suora, e assume il nome di Teresa Benedetta della Croce.  

Dunque, come nasce la sua filosofia? La filosofia di Edith Stein è un ponte che collega la fenomenologia di Husserl con la sua personale ricerca della verità. In parole più semplici, il suo pensiero nasce dall’incontro tra ragione e la fede. E nonostante il rigore del pensiero fenomenologico, Stein sentiva che in esso qualcosa mancava: la risposta ultima sul senso ultimo della persona. Edmund Husserl, il suo maestro, le ha offerto un metodo rigoroso per descrivere l’esperienza senza però considerare il rapporto “metafisico” tra uomo e Dio. Questo fatto non le andava bene. Secondo lei, la vera conoscenza della persona non è confinabile in un semplice atto razionale, ma si espleta come un incontro con la Verità assoluta, cioè in Dio.

La filosofia, quindi, da sola non basta: occorre aprirsi alla fede.  Dunque, Stein si pone questa domanda: Come possiamo comprendere gli altri? tramite l’empatia.

Detto così sarebbe semplicistico e persino un adolescente potrebbe addurlo. Le cose non sono proprio così. Vediamo meglio: Per comprendere bene questo termine dobbiamo avvalerci della lingua tedesca. Nella lingua italiana, di termine ne abbiamo uno solo: “empatia”. La lingua tedesca ne usa due: Ein-sfülhen e Mit-fülhen. Il primo Ein-sfülhen possiamo tradurlo volgarmente come il “mettersi nei panni dell’altro”, tentando di capire l’esperienza di vita dell’altro da una posizione esterna. Io comprendo il dispiacere, i sentimenti di dell’altro, senza necessariamente viverli emotivamente. Il primo stadio resta comunque un punto di “comprensione” che avviene dall’esterno. Il secondo Mit-fülhen possiamo tradurlo con “il provare compassione”. Questo implica un pieno coinvolgimento dei sentimenti e della emotività. Qui i sentimenti dell’io si fondono con quelli del tu per diventare un “sentire con”, un “sentire insieme”. Potremmo etichettare da subito Edith Stein come la filosofa o la mistica dell’empatia. In questo senso l’empatia non è solo un fatto psicologico, ma un vero atto di conoscenza che ci permette di sentire la vita interiore dell’altro e con l’altro. L’empatia diventa partecipazione al mistero di Dio come un comando cristiano di amare il prossimo come se stessi e di riconoscerlo nella sua dignità morale e spirituale.

Stein integra empatia e fede nella maniera in cui concepisce la persona umana: La persona non è solo una entità razionale, ma un essere che vive nella carne, ha un’anima e un legame profondo con Dio. La fede non annulla l’empatia, ma l’approfondisce, la rende esistenzialmente viva nella misericordia. Perché, ad avviso di Stein, solo la fede può rivelare il vero significato di questa relazione a tutto tondo. 


di Fabio Squeo

venerdì 21 marzo 2025

Simone Weil e la sua filosofia dell’attenzione

Simone Weil (1909-1943)

“Questa società è diventata una macchina per comprimere il cuore e fabbricare l’incoscienza”.

È una grande donna che scrive; una pensatrice originale profondamente interessata al concetto di giustizia sociale: Il suo nome è Simone Weil. Questa filosofa è poco trattata nei libri di Storia della filosofia, nonostante la sua evidente profondità di pensiero. Tutto ciò si spiega a partire dalla sua ricerca filosofica “multi-disciplinare”. Il suo concetto si costituisce come una mescolanza di argomentazioni difficilmente richiudibili all’interno di una corrente di pensiero ben precisa.

Il suo pensiero si lega molto bene alla teoretica, alla storia, alla politica, alla religione, all’etica, al misticismo, allo spiritualismo, pur non avendo quel rigore accademico formalizzato.  Al primo approccio di studio, potrebbe sembrare di avere a che fare con una tuttologa del pensiero: in realtà le cose vanno diversamente. È chiaro che stiamo avendo a che fare con una vita straordinaria.

Dunque, partiamo dall’origine: Simone Weil nasce a Parigi il 3 febbraio del 1909 in una famiglia ebrea e muore nel 1943 alla giovane età di 34 anni di tubercolosi. Sin da ragazzina mostra una intelligenza viva e pungente. Dopo la laurea in filosofia, inizia a insegnare filosofia nelle scuole superiori. Nel 1934 sospende momentaneamente l’insegnamento per dedicarsi al lavoro nella fabbrica Renault per constatare le forme di alienazione e le condizioni di lavoro degli operai. Una esperienza durata poco in confronto a una vita intera di continuo esilio. Fu costretta, infatti, ad abbandonare le sue ricerche, i suoi lavori per le discriminazioni razziali.

Nel 1940 vi è l’epilogo: con l’occupazione nazista e l’emanazione delle leggi antisemite, le fu proibito categoricamente di insegnare. Questo evento si presentò come un episodio tanto drammatico quanto rivoluzionario: Simone Weil entrò in contatto con la resistenza e con gli ambienti cristiani.  

Analizzando il pensiero di Weil, pare che ella prenda le distanze dalla Volontà di Potenza di Nietzsche. Ella è contraria a tutte quelle ideologie che esaltano la forza, la potenza. Crede piuttosto che la vera forza risieda non tanto nel dionisiaco, quanto nell’umiltà, nella compassione, nella debolezza accettata. Possiamo sintetizzare il tutto nella pratica dell’attenzione.

Essere attenti o attenzionare qualcosa significa essere rivolti a, concentrati su qualcosa o qualcuno. Provando ad etichettare Simone Weil, potremmo dire, nella sostanza, che ella è “la filosofa dell’attenzione”. Infatti per Simone Weil, l’attenzione è una categoria essenziale, un concetto centrale, che va oltre il semplice atto di concentrarci su qualcosa.

Cosa intende esattamente Simon Weil? 

L’attenzione è una disposizione dell’animo di apertura totale alla realtà dell’altro, senza pregiudizi e senza forzature.

L’attenzione è un atto di amore totale in grado di accogliere l’altro nella sua totalità. Non si tratta di un atto poderoso di volontà, ma di sola acquisizione: “io ricevo l’altro così com’è” come massima disponibilità.

Portiamo un esempio: Sento bussare alla porta; è piena notte. Siamo nel 1941, tra persecuzioni e proibizioni a causa del nazismo. Apro: mi si presenta davanti una bambina ebrea che piange: ha bisogno di cibo, acqua e di protezione.  Come agiresti? Accetteresti di proteggerla col rischio di essere ucciso?

Oppure venderesti la bambina all’aguzzino in cambio di un beneficio?

L’attenzione è un atto decisivo di accoglienza, di giustizia, di coraggio, di pazienza, di attesa.  

Simone Weil paragona l’attenzione alla preghiera. Chi è veramente attento si svuota del proprio ego per entrare in contatto con la verità più profonda dell’esistenza.

Attendere e attenzionare hanno lo stesso significato in Weil.  La sua opera intitolata “L’attesa di Dio”, (pubblicata postuma nel 1950) indica proprio questo passaggio obbligato: Per arrivare alla verità (a Dio), occorre attendere. Non si tratta di attendere il treno alla stazione, o un amore non corrisposto. Stiamo parlando di una attesa attiva e non passiva. Alla fermata dell’autobus io attendo passivamente. Essere davanti a Dio o alla stazione non è proprio la stessa cosa. Weil elabora col suo libro una vera meditazione: L’attesa è sempre attenzionata, attiva, una maniera per avvicinarsi a Dio e al significato dell’altro.  L’attesa non è un fatto temporaneo, ma è una condizione esistenziale che muove ogni attimo della nostra vita.


di Fabio Squeo

giovedì 20 marzo 2025

Problematicità e mistero dell’essere nella relazione di esistenza

Gabriel Marcel (1989-1973)

 

Se per molti esistenzialisti atei, l’uomo esiste nella problematicità e si definisce mano a mano in una dimensione senza senso e senza scopo, con Gabriel Marcel l’esistenza non è più un problema, ma un dono. Questo fatto, chiaramente, ci dice che siamo davanti a un filosofo credente, religioso.

Gabriel Marcel è stato considerato il maggior esponente del contemporaneo “esistenzialismo cristiano”. Per i non addetti ai lavori, può sembrare una volgarità.  Se non vi piace Esistenzialismo cristiano, sostituite le due parole con “il mistero dell’essere”.

Dunque, Marcel è il filosofo del mistero dell’essere. Egli nasce a Parigi il 7 dicembre 1889 e muore a Parigi nel 1973.  All’età di quattro anni perde la madre. A diciotto anni consegue il diploma superiore e si laurea in filosofia alla Sorbona di Parigi nel 1907.  All’origine del processo conoscitivo vi è la ricerca filosofica attorno all’essere, al suo concetto; una indagine rigorosa che porta chiaramente ad una problematizzazione.

Cosa ne viene fuori?

Il problema. Se problematizzo su Dio, Dio diventa l’oggetto del mio problema. Se problematizzo sulla mia coscienza, la mia coscienza ne è l’oggetto del problema. Ad avviso di Gabriel Marcel non è proprio così.

Secondo Marcel, una indagine attorno al problema dell’essere, non può sussistere. L’Essere, dirà Marcel, non rappresenta un problema, ma un mistero. 

Che cosa è un problema?

Il problema è qualcosa che può essere analizzato, misurato, quantificato e risolto con strumenti matematici. L’Essere non è una equazione, non è un calcolo algebrico divisibile, scomponibile o frazionabile.   Il problema è qualcosa di risolvibile anche con la calcolatrice.

In altre parole, la categoria dell’Essere non rientra nel problema perché l’oggetto del problema (l’Essere) non è affrontabile in maniera “oggettiva”. Questo accade perché all’interno dell’essere, ci sono io con il mio essere che domanda. Ancora meglio: All’interno dell’essere, il soggetto si pone la domanda sull’essere che è (il soggetto medesimo) lo stesso essere.  Quindi, ad avviso di Marcel, l’oggetto della domanda riguarda anche il suo soggetto. Ergo soggetto e oggetto sono strettamente in relazione.

Con Ciò Marcel, prende già da subito le distanze da Cartesio, tra la res cogitans e la res extensa (tra la realtà pensante e la realtà fisica). In Cartesio avviene una separazione che in Marcel non avviene. In questa unità, all’interno di questo nodo di relazione soggetto-oggetto che si espleta il mistero. Il mistero dell’essere avviene come un atto puramente comprensivo, a mio avviso intuitivo: Il mistero è qualcosa in cui io mi trovo coinvolto, compreso, nel problema dell’essere: ed ciò mi impedisce di avere una chiara distinzione tra l’io e l’oggetto.

L’essere umano, dice Marcel, vive in una dimensione di questo tipo: È proprio questo “coinvolgimento dell’essere nell’essere stesso” che risveglia il mistero dell’Essere. Il mistero dunque è dell’homo viator, in cammino sulla via della com-partecipazione.

Non si nasce mai soli; incontriamo sempre il volto dell’altro sulla via dell’essere; mai dobbiamo disabituarci all’idea di aprirci a una dimensione intima e col mio mondo. Perché il mio mondo è anche il tuo. L’essere delle nostre domande è lo stesso essere su cui poggia la nostra esistenza. Questo ci ha insegnato Gabriel Marcel.


           di Fabio Squeo

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