venerdì 21 luglio 2023

I miei pensieri

 


Attendo che il silenzio parli al cospetto del cuor timido.
Troppi rumori aleggiano per sé stessi.

La ragion pratica si sveste della toga di giudice.
Non ci sono regole oltre le mie.
La libertà è totale.
Nessun margine si pone al fluire dell'essere.

Tocco i miei pensieri.
Sono colorati dalle emozioni.
Vibrano al passar dal rosso a chi altri occhi usa.

Nulla si dirà di essi.

Sono attimi che si spengono.
Sono desideri appesi ai sogni che già non si ricordano.
Sono segni d'esistenza.

Troppo piccoli per essere visti.
Troppo importanti per essere trascurati.

Corrono in tanti
ma in fondo sono sempre gli stessi.


L'illusione della verità

 


La vita è connotata da un continuo movimento che coinvolge spirito e materia. Si muove la materia nell’arco dell’evoluzione, si muove lo spirito sull’onda del perfezionamento. Poco importa se sono spinti entrambi della necessità o dalla casualità.

È evidente che fattori come la dinamica, il cambiamento, le trasformazioni, sono padroni dell’universo.

Ci affanniamo a trovare la finalità di tutto questo movimento, ma servirà a qualcosa?

Una foglia secca trascinata dal vento in una traiettoria elicoidale, cambierà continuamente opinione sulla direzione che la tempesta le imporrà.

La foglia, nel suo piccolo, riferirà i suoi sforzi alle sue dimensioni, per cui il tratto successivo che potrà pronosticare, sarà di pochi centimetri, prima di ricredersi e tirar fuori un nuovo pronostico. 

Le sempre nuove soluzioni individuabili smentiranno le precedenti e per amor proprio, essa le giustificherà con il progresso della scienza e della tecnica.

Povera foglia! Come potrà capire se per necessità o casualità il suo moto non ha una direzione o se è tale solo ai suoi occhi?

Se riuscisse ad abbandonare sé stessa, rimarrebbe traumaticamente delusa nel constatare la sua pochezza e la scarsa o nulla considerazione che la tempesta le dimostra.

Resterebbe invece, a bocca aperta, profondamente stupita, per la bellezza, la forza, la grandezza e la perfezione, che il suo extra-mondo le mostra.

Eccovi il segreto della vita.

Non aspettate che vi dica come diventare ricchi o come vivere cento anni. 

Mi piacerebbe svelarvi come essere felici, ma io sono una foglia come voi, destinata a muoversi nella tempesta e che vuol provare con voi a vedersi fuori da sé stessa.

Compito difficile vero?

Reso impossibile dal guardiano del nostro corpo, prontamente ubbidiente; ottuso esecutore di un codice scritto da una mano senza nome e senza testa!

Il segreto è armoniosamente svelato in una frase del grande Hegel.

Egli è stato così bravo a uscire da sé stesso che lo ritrovi anche ora, tra queste sue parole: “Pensare solo a sé, è la stessa cosa di non pensarci affatto, perché il fiore assoluto dell’individuo non è dentro di lui; è nell’umanità intera”.

Dimostrarsi generosi significa abbandonare sé stessi per porre l’attenzione fuori dalla propria persona. In questi casi il corpo protesta perché gli sottraete ciò considera sempre indispensabile.

Quando voliamo col pensiero abbandoniamo noi stessi; il corpo protesta perché ha paura di non essere più accudito.

Quando le emozioni si manifestano con brividi, palpitazioni, lacrime, tremori, non abbiate paura, sono proteste del corpo che sentendosi abbandonato tenta in mille modi di trattenere l’anima.

Esso teme di essere abbandonato per sempre.

 

giovedì 20 luglio 2023

Terùn

 


Racconto scritto da ANTONIO CAMPANILE

 

Caracollante. Così ti vedo sempre, quando vaghi, quasi spaesato, per Mola. Ogni volta che ti scorgo il mio sguardo viene calamitato dalla tua persona. 

Eppure non hai nulla di interessante. Sei alto meno di un metro e mezzo. Non hai un look. I tuoi abiti sono sdruciti e sovradimensionati. 

Persino la coppola è più grande della tua testa. Fai fatica a camminare. Allarghi le braccia ad ogni passo, per bilanciare l’equilibrio instabile delle tue gambe arcuate. Il tuo sguardo è sempre sofferente. 

Mai una volta che ti abbia visto con un’espressione diversa da quella che ti corruga il volto dalla A alla Zeta. 

Solo, sempre solo. Anche quando sei sulla piazzetta antistante casa, quando trovi qualche minuto per sederti sulla panchina, non c’è mai nessuno che ti rivolga parola. 

Soltanto per qualche giorno ti ho visto con un quadrupede meticcio. Solo con un cane. 

Mi chiedo in continuazione quali pensieri passino per la tua testa, quali immagini aleggino nel tuo universo privato. Ma sbaglio a fare congetture. La risposta è semplice. 

Pensi alla campagna. Sempre. Pensi alla vita di cui sei orfano a causa delle leggi del tempo. Era dura, lo sai, quella vita. Ma era tutto quanto dava senso alla tua esistenza.

Ti piaceva alzarti molto prima dell’alba. Preparavi alacremente le cose da mangiare nella pausa di mezzogiorno: pane, pomodoro e qualche frutto. 

Tiravi su acqua fresca dal pozzo e lo mettevi nel cicinato. Poi ti avviavi. A piedi oppure, quando eri fortunato, su un traino del padrone di turno.

Eri un lavoratore perfetto. Silenzioso e solerte. 

Quando arrivavi in campagna il tuo umore mutava di colpo. 

Ti sentivi in simbiosi con la terra, che sapevi aver bisogno delle tue mani come la creta per un vasaio.

“Tutto viene dalla terra e tutto va alla terra”. 

 Era il tuo motto speciale, una frase tutta tua, anche se concepita in dialetto, che ti era sgorgata spontanea da quella fronte che di solito tracimava solo sudore.

Adesso che vai per il paese, ti senti un alieno. Il mondo attuale ti pare un pianeta completamente nuovo. 

Odii le macchine, le moto e tutto quanto si muova senza un animale che lo spinga. Ma la cosa che più non ti va giù è che questo pazzo mondo ha un gusto maniacale per lo sperpero. 

Osservi persone e persone che non fanno altro che comprare e gettare. Ti guasti la digestione quando vedi passare quei gran camion pieni di spazzatura, i mulini a vento contemporanei. 

Pensi allora a quando eri giovane. In paese non esisteva la nettezza urbana. Tutto veniva dalla terra e tutto andava alla terra. 

Il primo spazzino, che serviva Mola, comparve nel dopoguerra, quando cominciasti ad avvertire i primi refoli del cambiamento. Fino alle tempeste di oggi.

A parte un viaggio in bus a Roma, con i confratelli - che ti lasciò allibito - non hai mai varcato i confini di Mola. 

Ogni tanto, soprattutto d’estate, vedi gente forestiera per strada. 

E immagini le terre fantastiche dove essi vivono. Terre verdi, dove non manca mai l’acqua. 

Una volta, l’estate scorsa, ti è capitato un episodio che ti torna spesso alla memoria.

Faceva un gran caldo, era un giorno di primo agosto, verso mezzogiorno. Ti eri sospinto fin verso il mare, dalle parti del vecchio ospedale. 

Ti eri fermato alla fontana, quella vicino l’edicola, per bere un po’ d’acqua. 

Stavi accingendoti a compiere quei movimenti, bradipici e rituali, che ti avrebbero permesso di sorseggiare con piacere quel liquido naturale e miracoloso. 

Non ti accorgesti della macchina sportiva che si stava accostando alla fontana. 

Solo quando il solito rumore rombante ti fu vicino vedesti scendere due giovani prestanti. Il loro accento non lasciava dubbi: erano forestieri. 

 

Ti si rivolsero con fare deciso, non avvertendosi che tu stavi già facendoti da parte. Non avevi fretta. Il tuo tempo è lo stesso della natura, lento e accomodante. 

«Ciao terùn!», ti aveva detto uno di loro, avvicinandosi al rubinetto.

Li lasciasti bere e li vedesti andar via, veloci.

Fu allora che, finalmente, togliendoti il berretto, ti avvicinasti alla fontana e cominciasti a bere. Poi, sollevandoti con lentezza, ti venne di guardare in direzione della macchina appena partita. Pensavi a quello che ti aveva detto il conducente. 

Il tuo italiano stentato non ti impedì di comprendere che si trattava di una parola che aveva a che fare con la terra, la tua amata terra. 

Fu in quel momento che le tue labbra abbozzarono, per la prima volta, qualcosa che assomigliava ad un sorriso.

La piazza del mercato

 


La piazza del mercato rappresenta nella metafora di Nietzsche lo scenario della vita comune dove si rappresenta tutta la farsa del vivere.

Nella frenesia del mercato troviamo sempre rumore e ressa; è il luogo in cui serve pubblicità, chiasso istrionico, strombazzamenti … allineati al gusto fieristico.  

Il linguaggio della gente di mercato è un vero e proprio “fracasso”, una sgangherata gran cassa di parole buttate. 

Siamo nel regno del “baccano” assordante dove ogni voce, se non è agitata, si perde nel sussurro: tutti parlano; fanno propaganda della propria saggezza con squillo di campane. 

Tutti starnazzano e tutto viene logorato a forza di parole. 

Nello sfodero dei fogli moneta i frequentatori si gonfiano di potere povero.

Nello sbraitare del mercato, ciò che conta non è parlare per essere ascoltati, ma per dire qualcosa, nonché sedurre e convincere.

La parola è strumento per confondere, per “far perdere la testa” alle masse incolte: in tal modo i compratori, capendo poco su ciò che è veramente grande o bello, esalteranno i loro incantatori, attribuendo falsi poteri e considerandoli legittimi padroni del loro momento.

Per riprendersi da questa infezione collettiva occorre ritirarsi velocemente e cercare il silenzio del mare.


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