L’umanità è posta in una posizione in
cui determina la propria esistenza sulla terra. A differenza di altre specie
viventi, la mancanza dell’istintivo si traduce in una separazione non solo
dagli altri animali ma anche da sé stessi.
Questa separazione non avviene soltanto nel mondo delle relazioni che si instaurano, ma trae origine anche dalle proprie coscienze, dalle proprie individualità: ed è alla base della propria individualità che l’uomo sperimenta la divisibilità, la separazione. Ciò che la caratterizza come entità è proprio l’apertura di senso e la loro capacità di muoversi verso nuovi orizzonti di senso.
L’uomo non è semplicemente una “cosa”, ma un “soggetto” che trova la sua ragion d’essere nella propria esistenza, nel suo divenire più di ciò che è.
L’umanità è una continua scoperta, una continua rielaborazione e ri-realizzazione di sé stessa e dei propri contorni esistenziali o sociali.
Cercare la propria strada nel mondo, la propria identità, significa aprirsi alla propria consapevolezza, una consapevolezza che non basta mai a sé stessi.
È infatti molto chiaro che questa inadeguatezza emerge come risultato di un’esperienza di privazione, di assenza, di mancanza. In un contesto filosofico, quella stessa “mancanza” sarà posta in termini problematici affinché diventi la condizione originaria della totalità costitutiva dell’umanità.
Siamo tutti portatori di questa stessa mancanza e tutti cerchiamo ciò che manca. E possiamo anche dedurre che le immagini nel mondo sono semplicemente percezioni generate dalla nostra stessa immaginazione che provengono da noi stessi per superare una mancanza di fondo.
Tutta la nostra vita è una lotta per cercare di affermare quel dettaglio che ci sfugge, quel qualcosa che continuiamo a perdere, e ci tratteniamo dal riconoscere ciò che in realtà ci manca. Continuiamo a sperimentare una completa insoddisfazione dentro di noi, nonostante tutto ciò che noi stessi riusciamo a malapena a cogliere.
All’interno dell’uomo c’è anche la coscienza, un tentativo di affermare il proprio statuto ontologico; nell’uomo, invece, c’è l’idea di realizzarsi in consapevolezza di della propria incompletezza o nel suo essere incompleto.
C’è naturalmente un senso di illimitatezza che ci muove tutti, ma ciò che possiamo solo afferrare è sempre limitato, contingente al contesto del suo essere.
L’uomo, nel suo viaggio continuo e ininterrotto, proprio come Ulisse, rimane perennemente insoddisfatto della propria esistenza.
D’altra parte, la mancanza e l’assenza costituiscono le fondamenta stesse del nostro desiderio, della nostra stessa esistenza.
Sentiamo che manca qualcosa, ci sentiamo perduti, come quando viviamo in un’illusione di pienezza.
Ce lo ricorda lo psicoanalista Antonio Imbasicati che nella sua opera “La donna e la bambina. Psicanalisi della femminilità”, dice: “La sensazione di arricchirsi va di pari passo con la sensazione di sentire che manca qualcosa. Questo è uno dei drammi eterni dell’umanità”.
Sentiamo che manca qualcosa perché sembra che ci sfugga costantemente. Inoltre, la vita che viviamo, continua a interrogarci e, nel rispondere ad essa, sentiamo che ci sta consumando. Ci sentiamo vuoti. Ci fa sentire come se ci mancasse la nostra abitudine al senso.
La vita si esprime nella mancanza, nell’imperfezione, nella finitezza. La sensazione di mancanza è uno dei sentimenti più sentiti nella nostra vita.
Dal latino máncus (inglese missing), significa incompleto, imperfetto. Ci manca una persona cara, un genitore, un parente o un luogo lontano. Ad un certo punto, sentiamo la vita che ci manca quando il senso della vita improvvisamente viene meno; quel senso che irrazionalmente assumiamo come esistente e momentaneamente perso.
La mancanza è la traccia inconfondibile della nostra perpetua imperfezione, la sensazione di una vita persa prima che lo sia realmente.
La mancanza è più forte della vita.
Si vive per esserci, quando vivere è mancare.
Tutti sanno che la vita ci limita e che noi, essendo limitati, condividiamo questa stessa “condizione” con tutte le altre entità.
Le cose esistono perché sono finite, cioè perché hanno una loro definizione particolare, perché sono caratterizzate da particolari determinazioni, perché sono vincolate da confini che rendono ogni cosa diversa dalle altre.
Ognuno però, durante l’esperienza della vita, può assegnare personalmente i propri limiti, secondo i propri limiti.
Ognuno dà un senso, un valore, ogni volta che la vita stessa non lo dà. Purtroppo il valore della vita non precede la vita, e il modo in cui si dà alla vita non è della vita, ma di chi vive, sopravvive.
Il senso della vita è nel testimone, nel sopravvissuto, in chi c’è stato, finché ce n’è stato almeno uno.
Il senso e la vita sono separati da un abisso imprevedibile.
Questo è il lato drammatico: il senso che può diventare non-senso da un momento all’altro. José Ortega y Gasset nella sua opera Che cos’è la filosofia, dice: “Puoi rinunciare alla vita, ma se vivi non puoi scegliere il mondo in cui vivere”.
Vivere non è essere in una condizione di scelta, ma incontrarsi in una scelta assoluta, in un contesto che non hai scelto.
“Siamo stati gettati nelle nostre vite, e quindi possiamo crearle per noi stessi o, per così dire, fabbricarle”.
Viviamo con ciò che la vita ci offre.
Dobbiamo sopportare imperfezioni e vuoti; siamo spinti a produrre, a fare, a desiderare la pienezza.
Scrive Cera: “Ma questa tendenza [al compimento] si esprime solo con mezzi simbolici e con forme e risultati esclusivamente culturali”.
Nasciamo e incontriamo la vita ogni volta che incontriamo noi stessi. Eppure, senza sapere come, disgustati, finiamo per vivere una vita piena di parole, gesti, interpretazioni e paradossi.
Ci sono parole sacre su di noi: parole che rivelano qualcosa di noi che vorremmo restassero solo con noi. Trovarsi tra le parole, tra le immagini di una poesia, è come cedere il passo al senso come luogo del senso.
Quando la vita ha un significato, ci sentiamo a casa, ci sentiamo ascoltati e infine familiarizziamo naturalmente con il corso mutevole delle nostre vite.
È stato detto, in passato, che il senso e la vita sono separati da un abisso imprevedibile dove il senso può diventare un non senso. Ma perché questo?
La separazione non è il problema in sé. Il vero problema è l’abisso che li trattiene e li respinge tenendoli in una prospettiva non chiaramente determinabile.
Se la separazione è causa di una mancanza vincolante, l’abisso è l’unica opzione rimasta affinché tale fallimento possa realizzarsi come una perdita e, allo stesso tempo, una possibilità di perdersi come una perdita effettiva.
Per questo si può affermare che la vita è perdita, mancanza, ma allo stesso tempo, in sua assenza, c’è un oltre, una possibilità per chi fa della propria vita un fondamento, un’opera d’arte, una scelta di vita.
Dal momento in cui la vita diventa motivazione, tutto ciò che abbiamo vissuto come un non-senso può incredibilmente trasformarsi in un Over-senso.
La mancanza è perdita ma sprona chi la vive al desiderio, alla godibilità di volere ciò che manca.
La voglia di mostrarsi oltre che di nascere. Ma volere è soprattutto dimostrare a sé stessi che in assenza di una casa altrove, c’è un altrove di una mancanza.
Bisogna inventarsi la propria vita, dare un volto alla propria esistenza, e nello stesso tempo riconoscere nell’incompiutezza dell’uomo il destino dell’umanità.
In che modo la mancanza dichiara la propria altrove?
Per l’azione dell’uomo; vale a dire, prendersi cura del malato, dell’orfano e di tutta la vita nelle sue infinite manifestazioni. Siamo entità incompiute ma possiamo aiutare, curare, amare.
Siamo una parte della nostra vita mancante, quella che vediamo perdersi, quella che ritroviamo negli sguardi profondi e smarriti di chi non è ancora deciso a lasciarci o a non donarci.
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