mercoledì 17 settembre 2025

Il dolore non è solo un dato da misurare


 

Il dolore non è solo un dato da misurare o una variabile da trattare: è l’apertura di una comunicazione incarnata che chiama una risposta relazionale. Quando la medicina riduce la sofferenza a un sintomo misurabile, confrontabile, perde la possibilità non solo di curare meglio, ma soprattutto di riconoscere la persona come individuo. Il termine stesso individuo individua e rivela la posta in gioco: in-dividuum, ciò che non si può dividere. L’essere umano non è una somma algebrica di parametri clinici, organici, funzionali, né tanto meno un insieme di dati scomponibili e isolabili. 

L’essere umano è una totalità sorprendentemente irriducibile che comprende corpo, psiche, storia, relazioni, universo ermeneutico e simbolico. Quando la medicina “divide” per analizzare, guadagna certamente precisione e rigore tecnico ma rischia di perdere l’orizzonte della complessità umana. Con ciò non voglio dire che la divisione analitica debba passare in secondo ordine o essere svalutata. 

Al contrario, essa rimane uno strumento necessario: senza la capacità di distinguere, classificare, misurare, la medicina non sarebbe in grado di offrire diagnosi tecnicamente affidabili né di sviluppare terapie risolutive efficaci. L’analisi è ciò che consente di oggettivare il fenomeno, di renderlo comunicabile, di confrontarlo con protocolli condivisi.

Il problema nasce quando questa prospettiva diventa “esclusività”. Nel senso che l’approccio analitico non si limita più a essere uno strumento tecnico di conoscenza, ma pretende di esaurire l’intera verità della sofferenza del paziente. In questo modo, ciò che è solo un frammento di laboratorio viene dichiaratamente assunto come il tutto di una totalità ben diversa e lontana dalla complessità umana di cui si parlava. 

La prospettiva analitica, dunque, deve restare “aperta”, mai assoluta. Deve riconoscere i suoi limiti e accettare che i dati oggettivi non dicono mai tutto. Solo in questo modo l’analisi ritrova la sua funzione originaria: non sostituirsi alla persona, ma mettersi al servizio della sua cura e apertura comunicativa.

 Fabio squeo

martedì 16 settembre 2025

Due maledette "C": Cancro e Chemioterapia

 

Ho sentito quei noduli, sì, ce n'erano due. Sapevo che dovevo farmi controllare, quindi ho chiamato i miei medici.

Mi hanno ordinato una mammografia e un intervento chirurgico immediatamente, e lei ha detto:

"Non preoccuparti di cosa potrebbe significare".

L'ho preso per oro colato. È stata la cosa più facile da fare in quel momento. Smetti di pensarci, mi dicevo.

È stata fatta la mammografia e poi la biopsia.

Il risultato: Positivo! Avevo il cancro!

La parola "cancro", per qualche ragione, non credevo si applicasse a me. Il fiume della negazione scorreva senza pensarci due volte

Poi, sono stati necessari molti altri esami: TC, risonanze magnetiche e altre biopsie.

Ho fatto conoscenza di un nuovo termine: chemioterapia neoadiuvante.

Cos'è? 

Un nuovo farmaco o qualcosa del genere?

No, non è un nuovo farmaco: Ci vogliono quattro mesi di chemioterapia prima dell'intervento.

Accidenti!

Seguono sei trattamenti. Ma perché?

Per vedere come il cancro risponde alla chemioterapia e ottenere una prognosi.

Ora, ci sono due "C": Cancro e chemioterapia

Qual è peggiore?

Un confronto non proprio felice!

E così ho fatto quello che dicono i dottori

Ma che dire della morte?

Che dire della lotta?

Il pensiero di morire fluiva con la stessa noncuranza della negazione.

Se ci fossi solo io … mi parte un pensiero a circolo vizioso di ideazione suicida.

Se solo non avessi figli e marito, nessun amico, nessun altro familiare … la risposta sarebbe chiara.

Ma poi mi giro e penso a tutte le persone che fanno tifo per me … ed è meraviglioso!

Come potrei deluderle? E così mi parte una dissonanza nel mio cervello: cacofonica e miope.

Tutto quello che posso fare è essere qui ora, assaporare l'amore, le preghiere e il sostegno.

È una bella sensazione: le persone si preoccupano per me e mi sostengono. È così toccante

Non posso fare a meno di piangere.

Ed è arrivato il primo giorno di chemioterapia. I miei cari sono con me. Gli amici si fanno sentire… anche con SMS

All'improvviso, non riesco più a tenere gli occhi chiusi.

Qualcosa non va.

Perché durante l'infusione ho avuto una reazione allergica.

Non riesco a respirare.

Riesco solo a piangere.

Dolore estremo e bruciore al petto.

Tante infermiere mi circondano.

Hanno interrotto l'infusione. Poi hanno ripreso lentamente il controllo per terminare il trattamento. Gli effetti di quella reazione allergica erano inevitabili.

Nella mente si ripetevano le parole, "Non posso credere di avere il cancro" mentre ero sdraiata sulla barella in preda al dolore.

Tutti i segnali che ho il cancro sono innegabili: eruzione cutanea da chemioterapia, annebbiamento mentale, stanchezza, alopecia, mal di testa, dolori intestinali, tanti da menzionare.

Si tratta di non voler stare in mezzo alla gente, ma di farlo comunque

Si tratta di dire alle persone a me vicine, ai miei colleghi e all'Agenzia delle Entrate che ho il cancro, ma intorno a me ci sono soltanto: il mio chirurgo, gli oncologi, gli infermieri, i tecnici, flebotomi.

Rimane da decidere se volere o non volere una mastectomia, volere o non volere morire, essere o voler essere lì.

Si tratta di vedere mio marito e i miei figli affrontare tristemente questa situazione.

Si tratta di dover prendere consapevolezza di una situazione in cui si è trascinati. Perché la morte è inevitabile. Lo è sempre stata, ma ora ha un altro significato.

Eppure, ci sono i miei amici e la mia famiglia che mi vogliono bene.

Che dire di tutti quegli auguri?

Dicono che devo combattere e credere nella lotta e infine, accettare che ho il cancro.

Il mio amore non può essere attaccato dal cancro. 

 

lunedì 15 settembre 2025

Sogni di carta


 

Respirando polvere

in case macchiate di odio

i loro occhi scuri come nocciole

imparano presto a vivere al buio.

 

I bambini siriani

non hanno giocattoli

ma un sacco di juta

per raccogliere legna

da donare alla mamma.

 

Senza pretese attendono la cena

per poi dormire sotto una lisa coperta;

l’infanzia rubata attende ferita

che il mondo la liberi da un incubo atroce.

 

I bambini siriani,

però, sanno sognare:

Verdi cespugli e alberi in fiore

giocare in giardino sull’altalena

aria pulita dalle finestre

profumo di hummus nella cucina

famiglie riunite nei giorni di festa.

 

Sorridere almeno una volta al giorno

veder svolazzare panni puliti

e aquiloni rincorrersi sui tetti di Aleppo.

 

Ma il suono delle sirene

spalanca gli occhi color di nocciole:

unica amica la propria paura

si corre tutti al vicino riparo.

 

E i loro aquiloni non volano più:

i bambini siriani

fanno sogni di carta

che le notti divorano

con il fuoco dei mortai.

  di Giovanna Sgherza

 

sabato 13 settembre 2025

Cronaca dell'attesa esito di biopsia

 

È affollata la sala d'attesa. Lo è sempre. Mi agito nervosamente, attenta a non toccare con il gomito la donna seduta accanto a me, i cui polmoni gorgogliano a ogni respiro iperventilato. Ogni apparizione dell'infermiera con un blocco per appunti attraverso la porta blindata, mi fa accelerare il battito cardiaco, poi la noia, intrisa di angoscia, torna dopo che il mio nome non è sato chiamato. Il ritmo tetro della sala d'attesa ritorna e continuo a scorrere il mio cellulare.

Una bambina urla, con il viso arrossato dalla febbre, ma nessuno le presta attenzione. Una coppia di anziani siede immobile, i volti pallidi, entrambi con lo sguardo fisso a mille metri di distanza in un abisso che solo loro possono vedere. Una giovane donna, alta e tatuata, è assorta nel suo telefono, le sue lunghe dita bianche che scorrono metodicamente alla ricerca di ulteriore distrazione dopaminergica.

Dopo un po' la porta si apre di nuovo e l'infermiera chiama il mio nome.

"Come stai oggi?" mi chiede, completamente ignara della mia agitazione. Poi mi accompagna in una stanza claustrofobica dove le pareti sembrano la camera di tortura. Ma poi vengo distratta da una presentazione di diapositive per il diabete e di statine per il colesterolo e sono grata per la distrazione.

Mi siedo su una sedia e alterno l’accavallamento delle gambe mentre aspetto il medico che mi informerà sui risultati della biopsia. La mia ansia è fusa alla mia spina dorsale come un gemello coniugale indesiderato ed è implacabile, ma stranamente inizia ad attenuarsi – e sono sicura che siano le mie endorfine a offrirmi tregua dall'onda d'urto che mi aspetto di ricevere.

Finalmente la dottoressa bussa, mentre attendo tutta tremante, come il condannato che esorta il suo carnefice a sbrigarsi con il suo lavoro. Lei entra nella piccola stanza, il suo lungo camice bianco si contorce come una tromba d'acqua e una ventata di profumo delicato mi sibila nelle narici, e i miei nervi si distendono un po' di più. Sorride attraverso la mascherina e mi saluta con entusiasmo, e ora avverto un barlume di speranza, perché sono certa che la dottoressa non si comporterebbe in questo modo se sapesse che ho il cancro. Ma ovviamente è una mia presunzione.

La dottoressa si siede e digita sulla tastiera con agile efficienza, ma non parla, e mi chiedo quale sia il motivo del ritardo. La osservo ogni mossa, cercando indizi sottili e all'improvviso mi rendo conto di non aver mai visto la dottoressa senza mascherina, nemmeno in fotografia.

I miei sensi sono ipervigilanti e sento odore di alcol denaturato provenire da qualche parte nell'angusto cubicolo. Comincio a chiedermi se non abbia interpretato male l'ingresso disinvolto della dottoressa e che abbia adottato un astuto stratagemma per depistarmi prima di darmi brutte notizie.

La dottoressa spinge indietro la sedia e si gira a metà verso di me, con l'aria di essere finalmente pronta a parlare. Mi sporgo in avanti per assicurarmi di ascoltarla bene. Quindi, si gira completamente verso di me e parla, con voce calma e ferma, un atteggiamento più coinvolgente del solito.

"Sembra tutto a posto", mi dice, "la biopsia è negativa. Non c'è cancro e sei fuori pericolo."

Sono euforica e dico alla dottoressa che non riesce a immaginare quanto io sia sollevata. Le spiego che sono state settimane orribili e che potrei abbracciarla forte, e lei ride. Cerco di fare un po' di umorismo nero e dire che "tutte le strade portano al cimitero, ma non questa volta", ma lei non dice nulla. Poi mi chiede se ho domande. Chiacchieriamo brevemente, poi si alza dalla sedia e mi porge la mano.

La dottoressa apre la porta e una folata d'aria fresca entra mentre la seguo alla reception. Guardo verso la sala d'attesa e vedo una coppia di anziani con lividi al braccio causati da iniezioni endovenose, ma parlano amabilmente e i loro volti trasudano calore. La ragazza alta e tatuata non si vede da nessuna parte, ma c'è una giovane madre di origine mediorientale che non avevo notato prima, che sta cullando dolcemente il bambino che prima urlava. Come ho potuto non accorgermene? Mi chiedo dove siano posizionate le antenne cellulari del mio cervello che ricevono male.

Sono contenta che il mio buon umore stia tornando, e mi rilasso abbastanza da sentire di nuovo la terra sotto i piedi.

Mi avvicino alla macchina e fuori fa molto caldo. Ci sono nuvole scure che si muovono minacciose da est, e penso che più tardi pioverà e forse la temperatura si raffredderà un po'. Cerco le chiavi in ​​tasca, ma trovo solo un biglietto della lotteria spiegazzato che in qualche modo avevo dimenticato. Controllerò quei numeri quando torno a casa, ma a questo punto non ha molta importanza, perché in questo momento mi sento la persona più fortunata del mondo.

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