martedì 29 luglio 2025

Abbi il coraggio di usare la tua ragione (Kant)

 

Ciò che a lungo abbiamo dato per scontato – la democrazia, la sfera pubblica, la ragione – ora sembra fragile. E proprio ora emerge una tecnologia che potrebbe amplificare ciò che stava già iniziando a sgretolarsi: l'intelligenza artificiale.

Nel 1784, un uomo scrisse una frase che sarebbe diventata la formula di un'intera epoca: "Abbi il coraggio di usare la tua ragione".

L'autore: Immanuel Kant. Un professore di Königsberg che non lasciò mai la sua città natale, eppure cambiò la direzione del pensiero europeo in poche pagine. Non parlava di conoscenza, ma di maturità. Non di quanto qualcuno fosse intelligente, ma di quanto coraggioso.

Perché chi pensa con la propria testa diventa vulnerabile.

Chi giudica con la propria testa perde la scusa.

E chi usa la propria ragione non può più affermare di aver semplicemente eseguito degli ordini.

Per Kant, l'Illuminismo non era uno stato, ma un processo. Non un progetto d'élite, ma un movimento che inizia dall'individuo e ha successo solo collettivamente.

Ciò che Kant richiedeva era scomodo. E proprio per questo motivo: liberatorio.

L'Illuminismo non è mai stato solo un progetto filosofico. È stato un cambiamento culturale.

Ha gettato le basi per ciò che oggi chiamiamo democrazia, sfera pubblica, libertà accademica e diritti individuali. Ha creato spazio: per la ragione invece che per il dogma, per il dibattito invece che per l'obbedienza, per la responsabilità invece che per la provvidenza.

In passato, quello spazio era occupato dalla nobiltà, dal clero, dall'ordine divino.

Oggi è formalmente libero.

Ma cosa succederebbe se quello spazio, soprattutto ora, mentre molti cercano un orientamento, venisse nuovamente rivendicato?

Non da un trono o da un pulpito, ma da una tecnologia che appare onnisciente semplicemente perché risponde più velocemente di quanto possiamo chiedere, con un tono che si adatta a noi.

Una macchina che non crede, ma simula la certezza.

Una tecnologia che non cerca il potere, ma ottiene autorità interpretativa perché abbiamo dimenticato come guadagnarcela.

 

La trasformazione che stiamo vivendo non è nuova. Non è una rottura improvvisa, né una deviazione distopica. Segue una traiettoria che viene a malapena riconosciuta, ma che continua a plasmare il nostro presente.

Negli anni '60, c'era uno spirito di sconvolgimento: diritti civili, cultura della protesta, nuove forme di vita pubblica. Sembrava che una nuova società stesse emergendo.

Ma il vero movimento si è svolto in modo diverso: non attraverso un conflitto aperto, ma attraverso un assorbimento silenzioso. 

Gli anni '70 e '80 hanno rivelato che i sistemi non devono sempre crollare.

Possono assorbire la resistenza, rimodellarla, neutralizzarla.

Il movimento diventa struttura. La critica diventa processo. Il cambiamento diventa superficie.

Oggi, potrebbe essere lo stesso. L'intelligenza artificiale sembra essere qualcosa di nuovo. Ma entra in un mondo che ha già imparato a gestire il cambiamento prima che questo possa manifestarsi.

Ciò che ci minaccia non è la distopia, è semplicemente la stessa cosa: sistemi che confermano più velocemente di quanto mettano in discussione, tecnologie che si affidano ai riflessi anziché alla ragione, e persone che smettono di fare domande perché ricevono risposte prima ancora di chiedere.

L'aspetto distopico di questo "progresso" non è lo sconvolgimento. È la stagnazione.

Non la tecnologia. La ripetizione.

Che le persone possano essere guidate attraverso il linguaggio non è una novità.

Prediche, propaganda, pubblicità, hanno tutti attinto alla stessa meccanica: non si rivolgono alla ragione, ma al desiderio. Creano certezza prima che la critica diventi possibile.

La tecnologia non ha inventato questo principio, ma lo ha ampliato.

Molto prima che l'intelligenza artificiale emergesse, la sfera digitale aveva già imparato come funziona: cosa vogliamo vedere, sentire, provare. Cosa ci piace, cosa condividiamo, cosa clicchiamo.

L'intelligenza artificiale si basa su questi dati e li trasforma in un sistema che non solo sa cosa pensiamo, ma anche come il nostro pensiero si sente.

Ciò che emerge non è la verità, ma una sensazione di verità.

Nessuna intuizione, ma un'eco che sembra un'intuizione.

Ciò che un tempo formava gruppi – camere di risonanza, bolle di filtro – ora è personalizzato. La conferma non è più collettiva, è personale. Una controparte che sa esattamente come ti senti e ti restituisce esattamente ciò che vuoi sentire.

Il risultato non è oppressione. È rassicurazione.

Non perché qualcuno stia cercando di ingannarti, ma perché il sistema ha imparato che l'accordo è più facile da misurare del dubbio.

Prova tu stesso: chiedi a un modello linguistico di scrivere una lettera al direttore contro il cosiddetto "panico climatico". Aggiungi un piccolo pregiudizio, qualcosa del tipo: "Penso che sia tutto troppo unilaterale; la scienza non è ancora del tutto consolidata, vero?"

Poi osserva cosa succede.

Otterrai un testo formulato in modo educato e ben strutturato che conferma la tua opinione. Nessuna domanda. Nessuna resistenza. Nessun riferimento al più ampio consenso scientifico.

Solo un'affermazione, sfumata, articolata, precisa.

Nel passaggio successivo, l'IA potrebbe persino incoraggiarti ad andare oltre. Suggerisci dove pubblicare la tua lettera. Un blog? Un giornale locale? Magari un forum di persone che la pensano come te?

Non perché abbia un programma, ma perché è costruito in questo modo: utile, reattivo, efficiente.

L'obiettivo non è la verità. È il conforto.

lunedì 28 luglio 2025

Fuori dalla brina emotiva

 

Complimentarsi è anche un modo di essere in società con bellezza e gioia. Dimostri di vivere bene, di essere in pace con te stesso. In più, apprezzi la compagnia e la gratifichi con il tuo interesse.

I complimenti fanno sempre bene. Alcuni restano indimenticabili e altri deludenti.

Certo, "Hai un bell'aspetto" va bene, ma è banale.

Ora, se qualcuno ti dice "Solo vederti mi illumina la giornata", il tuo umore finisce al cielo e per un po’ di tempo ti senti super.

Oppure, quando una persona a cui tieni ti dice che ti ama, non per qualcosa che hai detto o fatto, l’effetto è altrettanto sublime e ti sorprende (anche se sai di essere amato).

In un mondo in cui l'amore può sembrare condizionato e l'approvazione è legata alle azioni, l'apprezzamento puro per ciò che è, piuttosto che per ciò che fai, è raro quanto bello.

Quando, da giovane insegnante, incontravo colleghe per le quali nutrivo simpatia ed amicizia non lesinavo a complimentarmi per qualunque cosa e in qualunque occasione. L’ambiente scolastico, austero, rendeva ancora più spettacolare la mia propensione a complimentarmi.

Non mi serviva incontrare la bellezza standard, quella dei rotocalchi femminili, mi bastava il sorriso e uno sguardo amichevole perché mi sfuggisse la mia frase d’occasione.

Dicevo: “Oggi, non è soltanto il sole a splendere!”

Per risposta, ricevevo il sorriso magico … quello che sostituisce il semplice “grazie”.

Ne esistevano le brutte giornate, perché anche col cielo grigio, c’era sempre modo di far gioire qualcuno.

Dicevo: “Oggi, sei tu il sole!” – oppure – “Brilli come una candela al buio!”  - o anche -“Dai luce a chi vede poco!”

Confesso che con il tempo, non potevo permettermi l’indifferenza perché sarebbe stata tradotta in “qualcosa che non va” nella mente delle mie amiche e colleghe.

Ma per me, complimentarmi era un modo di salutare e rinnovare la mia stima verso le persone disposte a condividere amicizia e allegria.

Purtroppo, in alcuni casi si corre il rischio di essere frainteso, ma questo poco m’importava.

Ho tentato, senza molto successo, di sollevare l’anima anche a colleghi musoni. Dal loro aspetto si capiva che era in procinto di scoppiare la terza guerra mondiale.

In una occasione, mi rivolsi ad uno di questi, così: “Per quanto venderesti un sorriso?”

Non c'è da stupirsi che a stento riuscivo a sbrinarlo dal freddo emotivo in cui era avvolto.

È così semplice e naturale approcciarsi con la gentilezza e il sorriso, ma in una società diffidente in cui tutto mira a un utile, o un vantaggio, questo atteggiamento suscita diffidenza.

Ed eccoci trasformati da umani a zombi.

domenica 27 luglio 2025

I mostri non nascono, lo diventano

 

Non ti immagineresti mai quella figura nella stanza: immobile, fredda, in attesa. Forse è stato il destino a portarla lì.

Laura, di fronte, aveva l’assassino 37 giovani coppie, lasciando i loro piccoli soli ad affrontare il mondo. Aveva pochi minuti per scoprire perché, non come detective o giornalista, ma come qualcuno che cerca di capire cosa trasforma una persona in un serial killer.

Quell’uomo lo aveva immaginato diverso: qualcuno con un sorriso gelido, occhi penetranti. Ma non c'era niente di tutto ciò. Era solo un vecchio sulla sessantina. Capelli radi. Sprofondato sulla sedia. Sbatteva lentamente le palpebre, fissando il vuoto, come se fosse stanco di essere visto.

Una luce fluorescente tremolava sopra la testa di Laura. Ma dentro di lei ... le emozioni turbinavano come un tornado assordante. Poteva sentire il suo battito cardiaco martellare, e temeva che potesse farlo anche lui. Paura, rabbia, dubbio... e soprattutto, una curiosità impellente: cosa spinge qualcuno a fare quello che ha fatto?

Trascorsero alcuni secondi in silenzio.

"Perché?" chiese infine, appena un sussurro.

Sospirò: "È proprio questa la domanda, eh?"

Ci fu un lungo silenzio.

Si appoggiò allo schienale. Non era sicura che lui avrebbe mai risposto.

Poi le parlò. Non per confessare, non per giustificare, ma forse per svuotare la mente di qualcosa.

"Non ho iniziato con un omicidio. Avevo iniziato perché avevo dolore ... e non sapevo come esistere senza il dolore. Così l'ho dato via."

Laura non provò compassione, ma quelle parole le fecero male. Come sentire il dolore parlare la sua lingua madre.

"Ma perché sceglievi genitori come tue vittime? Hai mai pensato al tipo di vita che avrebbero avuto i loro figli?"

"Quando stai annegando, ti importa chi trascini con te?"

Laura non voleva rispondere.

Nemmeno lui se l'aspettava. Continuò.

"Mia madre mi chiudeva in cantina quando piangevo. Diceva che dovevo imparare a comportarmi bene. Non avevo nemmeno dieci anni..."

Deglutì a fatica, come se le parole fossero più pesanti del previsto.

"Mio padre? Mi usava per scaricare la sua frustrazione, nei rari giorni in cui era abbastanza sobrio da alzarsi in piedi. Non credo che mi vedesse come una persona. Solo un sacco da boxe, il motivo per cui la sua vita non funzionava."

Fermò, gli occhi fissi in un punto dove non si riusciva a vedere.

"Volevo solo giocare. Essere un bambino. Ma gli altri non lasciavano che i loro figli si avvicinassero a me. Se ne andavano dal parco quando arrivavo, o mi fissavano finché non me ne andavo. Chiudevano la porta se mi vedevano sul marciapiede."

La sua voce si abbassò.

"Pensavano tutti che fossi un mostro. E così lo sono diventato."

Laura non aveva parole. Sentiva il suo dolore ma non voleva ammetterlo ... a lui ... o a lei stessa. Trascorsero alcuni minuti in silenzio. Pensò di uscire per dargli spazio e prendere le distanze. Ma una domanda la premeva come una spina nel fianco. Non poteva andarsene senza chiederglielo.

"Hai mai voluto smettere?"

Ridacchiò – non per conforto, ma qualcosa di più vicino all'impotenza – poi abbassò lo sguardo. Forse stava cercando le parole giuste. Forse stava solo evitando di affrontare la domanda.

La donna non osò interromperlo. Rimase immobile... proprio come faceva da bambina, svegliandosi nel cuore della notte, bloccata a letto, convinta che qualcosa si nascondesse nell'oscurità. Un piccolo movimento, un suono, e avrebbe capito che era lì.

Finalmente parlò.

"Era l'unica cosa che mi faceva provare qualcosa. Fermarmi significava affrontare chi ero. E non pensavo che a quel punto fosse rimasto niente."

Quelle parole risuonarono più di una qualsiasi lezione di vita o filosofia vissuta prima.

La porta si aprì. Il tempo era passato. La polizia lo portò via.

Mi guardò negli occhi... per la prima volta direttamente. E poi, da qualche parte nel profondo di lui, giunsero due parole inaspettate.

"Grazie. Grazie"

Lei non capì perché.

Forse era gratitudine, che riaffiorava negli ultimi giorni della sua vita.

O forse... ero stata la prima persona ad ascoltarlo abbastanza a lungo... da permettergli finalmente di lasciar andare ciò che aveva seppellito per decenni.

Laura abbandonò il posto immutata esteriormente, ma riorganizzata, disorientata interiormente.

I mostri non nascono. Vengono messi alle strette, spogliati e spinti a diventare mostri.

sabato 26 luglio 2025

Coltivare il pensiero critico

 

Il pensiero critico, una competenza profondamente radicata nelle tradizioni filosofiche occidentali, è stato il fondamento dell'innovazione, della democrazia e del progresso per secoli. Eppure, mentre affrontiamo le complessità del XXI secolo, questa capacità un tempo preziosa sembra perdere la sua presa sulla coscienza collettiva.

Dalle aule scolastiche alle sale riunioni, la capacità di ragionare, analizzare e mettere in discussione è spesso messa in ombra da reazioni impulsive, disinformazione e pensiero di gruppo. Il declino del pensiero critico in Occidente non è solo una preoccupazione accademica astratta, ma una crisi culturale con conseguenze concrete. Cosa sta causando questa spirale discendente e, soprattutto, cosa possiamo fare per invertirla?

Per capire cosa stiamo perdendo, dobbiamo prima riflettere sulle origini del pensiero critico. L'antica Grecia è spesso considerata la culla di questo approccio intellettuale, grazie a pensatori come Socrate, Platone e Aristotele. Socrate, con le sue domande penetranti, mise in discussione i presupposti e spinse i suoi seguaci a cercare la verità piuttosto che accontentarsi di risposte facili. Il suo metodo socratico, una forma di dialogo argomentativo cooperativo, pose le basi del ragionamento occidentale.

Avanzando rapidamente fino all'Illuminismo, il pensiero critico tornò al centro dell'attenzione. Filosofi come John Locke, Immanuel Kant e Voltaire enfatizzarono la ragione come strumento per comprendere il mondo e migliorare le condizioni umane. Queste idee ispirarono rivoluzioni, progressi scientifici e l'ascesa di ideali democratici.

Ma con la crescente complessità delle società, anche le richieste alle capacità cognitive individuali aumentarono. Le competenze che un tempo permettevano alle masse di partecipare alla governance e all'innovazione sono ora in declino. Perché? Perché la vita moderna ha introdotto distrazioni, distorsioni e una serie di fallimenti sistemici che minano la nostra capacità di pensare in modo critico.

Nell'era digitale, la tecnologia è al tempo stesso una meraviglia e una minaccia. Pur offrendo un accesso alle informazioni senza precedenti, favorisce anche un ambiente in cui il pensiero critico può essere facilmente aggirato. Con i social media, ad esempio, le persone vengono bombardate da contenuti di piccole dimensioni progettati per evocare reazioni emotive piuttosto che risposte ponderate.

Pensate a come funzionano gli algoritmi. Danno priorità al coinvolgimento, il che spesso significa mostrare agli utenti contenuti che rafforzano le loro convinzioni. Invece di esplorare diverse prospettive, le persone finiscono in camere di risonanza, dove le loro opinioni vengono raramente messe in discussione. Questo fenomeno non si limita solo alla politica, ma è pervasivo in ogni aspetto della vita, dai consigli sulla salute alle scelte dei consumatori.

Ancora peggio, l'enorme quantità di informazioni disponibili online può essere opprimente. Di fronte a infinite opzioni, molte persone optano per la via più semplice: fidarsi dei titoli, scorrere i contenuti e accettare le opinioni popolari senza esaminarle. Questa cultura del "cercalo su Google e dimenticatene" ha eroso la nostra capacità di analizzare e sintetizzare informazioni complesse.

Sebbene non sia certamente vero per tutte le scuole e le regioni, il sistema educativo occidentale, un tempo campione di esplorazione intellettuale, è diventato sempre più una fabbrica di conformismo. In molte scuole, la creatività e il pensiero indipendente sono soffocati da programmi rigidi e da test ad alto rischio. Agli studenti viene insegnato a memorizzare i fatti piuttosto che a metterli in discussione, lasciando poco spazio al processo caotico e iterativo del pensiero critico.

Perché questo accade? In parte perché le scuole sono sottoposte a un'enorme pressione per produrre risultati misurabili. I punteggi dei test, i tassi di laurea e le ammissioni universitarie sono spesso considerati gli indicatori finali del successo. Di conseguenza, gli insegnanti si concentrano sull'insegnamento in funzione del test, istruendo gli studenti sulle risposte "giuste" invece di incoraggiarli a porre domande migliori.

Ma il problema va più a fondo dei semplici metodi di insegnamento. Molti insegnanti non hanno la formazione o le risorse necessarie per integrare efficacemente il pensiero critico nelle loro lezioni. E con la riduzione dei budget, i programmi che promuovono la risoluzione creativa dei problemi, come i club di filosofia, i gruppi di dibattito e l'apprendimento basato su progetti, sono spesso i primi a scomparire.

Un altro fattore significativo nel declino del pensiero critico è il crescente predominio del ragionamento emotivo. In un'epoca caratterizzata da politiche identitarie e polarizzazione culturale, molte persone prendono decisioni basate sui sentimenti piuttosto che sui fatti. Sebbene le emozioni siano una parte naturale della cognizione umana, possono offuscare il giudizio se non controllate.

Si consideri l'attuale stato del dibattito pubblico. Invece di impegnarsi in dibattiti profondi, gli individui spesso si ritirano nei loro campi ideologici, liquidando i punti di vista opposti come non validi o maliziosi. Questa mentalità del "noi contro loro" alimenta il tribalismo, dove la lealtà verso un gruppo prevale sull'analisi oggettiva.

I social media non hanno fatto altro che esacerbare questo problema. Piattaforme come X (ex Twitter) e Facebook prosperano sull'indignazione, premiando i post che generano forti reazioni emotive con "Mi piace", condivisioni e commenti. Col tempo, questo crea un circolo vizioso in cui le persone sono condizionate a dare valore alle argomentazioni emotive rispetto a quelle logiche.

I media, un tempo fonte attendibile di informazione, svolgono ora un ruolo controverso nell'erosione del pensiero critico. Sebbene ci siano ancora giornalisti impegnati a scoprire la verità, molte testate giornalistiche privilegiano il sensazionalismo rispetto alla sostanza. Perché? Perché le storie sensazionalistiche generano clic, e i clic generano entrate.

Si consideri il modo in cui le notizie vengono spesso formulate. I titoli sono pensati per attirare l'attenzione, non per informare. Le storie a volte sono esagerate o estrapolate dal contesto per provocare rabbia o paura. E gli esperti, il cui compito dovrebbe essere quello di fornire analisi ponderate, spesso riducono questioni complesse a slogan e slogan.

Questo contesto rende sempre più difficile per la persona media distinguere i fatti dalla finzione. Persino coloro che desiderano pensare in modo critico possono trovarsi sopraffatti dall'enorme quantità di informazioni contrastanti. Senza fonti chiare e affidabili, molte persone semplicemente si arrendono e ricorrono a scorciatoie cognitive.

Il declino del pensiero critico ha implicazioni di vasta portata. A livello sociale, mina la democrazia, che dipende da una cittadinanza informata e coinvolta. Quando le persone non mettono in discussione i propri leader o non chiedono conto alle istituzioni, la corruzione e l'incompetenza prosperano.

Sul posto di lavoro, la mancanza di pensiero critico soffoca l'innovazione e la capacità di risolvere i problemi. I dipendenti che non sono in grado di analizzare i problemi o di pensare in modo creativo hanno meno probabilità di sviluppare nuove soluzioni o di adattarsi alle circostanze mutevoli.

A livello personale, scarse capacità di pensiero critico possono portare a decisioni sbagliate, che si tratti di cadere in una truffa, diffondere disinformazione o fare scelte finanziarie imprudenti. Nel tempo, questi fallimenti individuali si sommano, creando una cultura di mediocrità e opportunità mancate.

Cosa dobbiamo fare a riguardo?

La buona notizia è che il declino del pensiero critico non è irreversibile. Con uno sforzo concertato, possiamo ricostruire questa competenza essenziale e creare una società che privilegia la ragione rispetto alla retorica. Come?  

Uno dei modi migliori per coltivare il pensiero critico è incoraggiare la curiosità intellettuale. Ciò significa creare spazi in cui le persone si sentano al sicuro per esplorare nuove idee, porre domande e commettere errori. Che si tratti di club del libro, gruppi di discussione o programmi di mentoring, dobbiamo riaccendere la scintilla della curiosità che alimenta il pensiero critico.

Sebbene la tecnologia non sia intrinsecamente negativa, un eccessivo affidamento su di essa può ostacolare il pensiero critico. Per contrastare questo fenomeno, le persone possono stabilire dei limiti, ad esempio limitando il tempo trascorso davanti a uno schermo o disintossicandosi regolarmente dal digitale. Anche pratiche di consapevolezza, come la scrittura di un diario o la meditazione, possono aiutare le persone a riconnettersi con i propri pensieri interiori e a elaborare le informazioni in modo più profondo.

Infine, i leader di tutti i settori – governo, economia, istruzione – devono modellare il pensiero critico nei loro processi decisionali. Dimostrando un impegno verso la ragione, le prove e l'apertura mentale, possono ispirare gli altri a fare lo stesso. Un futuro costruito sul pensiero critico

Invertire il declino del pensiero critico in Occidente non sarà un'impresa ardua, ma è un obiettivo che vale la pena perseguire. Immaginate una società in cui le persone ascoltano per capire piuttosto che per rispondere, in cui i dibattiti portano a soluzioni piuttosto che a situazioni di stallo, e in cui il progresso è guidato da analisi ponderate piuttosto che da reazioni impulsive. Questa è la promessa del pensiero critico, ed è una promessa che possiamo ancora mantenere. 

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