Se aveste chiesto a
un ateniese colto dell'antica Grecia quale fosse la vita ideale, avreste probabilmente ottenuto
una risposta sicura. Forse diverse, ma tutte coerenti tra loro. Gli stoici vi
avrebbero fornito una guida alla virtù e all'apatheia (stato di impassibilità o
indifferenza di fronte alle passioni e agli eventi), un modo per affrontare
il destino come una statua nella tempesta.
Gli epicurei, al contrario,
avrebbero tracciato un percorso più delicato, una mappa verso il piacere
tranquillo, il desiderio moderato e l'evitamento del dolore. Aristotele,
compiacendosi di dividere la differenza, offriva l'eudaimonia, una vita
fiorente guidata dalla ragione e dall'eccellenza abituale.
Erano in disaccordo sulla strada
da seguire, ma concordavano sull'idea: c'era un fine ultimo, e poteva essere
conosciuto. L'etica non era un'improvvisazione, ma una forma di maestria. Una
vita ben vissuta era una casa ben costruita.
Gli strumenti erano a portata di
mano: ragione, virtù, autodisciplina. E non c'era vergogna nel costruire
secondo uno schema, nell'emulare i saggi. Se non ci riuscivi, ti ricalibravi.
Se soffrivi, lo inquadravi. Se ti perdevi, la mappa era sbagliata o la tua
lettura lo era.
Questa chiarezza prescrittiva è
sopravvissuta per secoli. Anche il cristianesimo medievale, sebbene
metafisicamente diverso, ha conservato il modello del progetto. La vita aveva
una direzione: verso Dio, attraverso la virtù, tramite la Chiesa. Le deviazioni
erano peccati. Il progresso era un pellegrinaggio.
Poi, intorno all'Illuminismo, ci
fu lo strappo.
La rottura non avvenne tutta in
una volta. Kant cercò ancora di tracciare una geometria morale universale.
Hegel abbozzò un'elaborata teleologia dello Spirito. Ma sempre più spesso la
vita moderna cominciò ad assomigliare a un bazar di valori. Freud, Marx,
Nietzsche: ognuno di loro distrusse i vecchi modelli con un martello.
L'inconscio si fa beffe del controllo razionale. La storia è conflitto di
classe. La moralità è risentimento.
Nel XX secolo, il valore stesso
era diventato instabile. Si pensi agli esistenzialisti: Camus insiste che la
vita non ha un significato intrinseco; Sartre sostiene che siamo condannati
alla libertà. Il sé deve inventare sé stesso. Ma inventarsi come? Secondo quali
criteri?
Oggi non ci sono più saggi. Non ci
sono coordinate condivise. Ci sono solo influencer e terapisti dell'auto-aiuto
o, se si è fortunati, un vecchio amico saggio che ascolta più di quanto parli.
Sei libero di scegliere la tua
vita ideale, ma devi scegliere da un menu infinito. Senza uno standard
condiviso, ogni scelta diventa isolante. L'impegno è perseguitato dallo spettro
di tutti gli altri impegni che non hai preso. La paralisi da scelta non è uno
scherzo; è l'acqua (piuttosto torbida) in cui nuotiamo.
C’è sentore di un certo malessere insito
nella modernità: vogliamo significato ma diffidiamo dell'autorità. Vogliamo
trascendenza ma evitiamo la religione. Ci viene detto di essere autentici, ma
non ci viene dato alcun copione.
Il risultato è instabilità. Non
proprio un fallimento, ma un movimento senza traiettoria. Le persone cambiano
città, lavoro, ideologie, partner. Non perché sono superficiali, ma perché sono
alla ricerca. O, più precisamente, perché ci si aspetta che siano alla ricerca
di una identità.
Ci si sta spostando verso una modernità
fluida in cui identità, istituzioni e relazioni perdono solidità. Tutto si sta
dissolvendo. Il lavoro a vita diventa un lavoro occasionale. Il matrimonio
diventa monogamia seriale. Il sé diventa un'immagine di profilo e un menu di
impostazioni.
Un contadino medievale non si svegliava
chiedendosi sé stesse vivendo la sua vita al meglio. Il suo programma di vita era
prestabilito: lavorare sodo, obbedire alla Chiesa, morire bene. Un lavoratore
della conoscenza moderno, al contrario, è tenuto a ottimizzare, riflettere,
reinventare.
Questa identità gassosa è elogiata
come liberazione. E per molti versi lo è. Nessuno vuole tornare al sistema
delle caste, al patriarcato o al dominio clericale. Ma c'è un problema: non si
può prosperare se si è sempre impegnati a ripiantare.
La virtù, l'abitudine,
l'eccellenza: tutte richiedono tempo. Richiedono stasi. Ma la stasi sembra
irresponsabile in un mondo definito dal cambiamento continuo. Fermarsi
significa rimanere indietro. Impegnarsi significa rinunciare alle opzioni.
Eppure la vita senza impegni, l'identità in continuo cambiamento, spesso
diventa vuota. Non si sta prosperando, si sta aggiornando.
I livelli crescenti di ansia e
depressione tra i giovani adulti riportano a un fattore considerato: la
vertigine etica.
Se ogni valore è facoltativo, ogni
decisione diventa esistenziale. Devo avere figli? Devo accettare il lavoro ben
pagato che non amo? Devo trasferirmi in un altro paese?
Queste domande diventano metafisiche,
oltre che logistiche.
E in assenza di un significato
condiviso, la posta in gioco sembra infinita. La tua vita è la tela. Il
pennello è nella tua mano. Se il dipinto viene male, di chi è la colpa?
Gli effetti sono evidenti
nell'ascesa delle micro-identità. Le persone cercano rifugio nelle etichette:
ENFP (attivisti, spiriti liberi), bio-hacking (riprogrammazione della mente e
del corpo), sober-curious (sobrietà mentale). Si tratta di mode passeggere che
fungono da strategie di sopravvivenza. Offrono struttura, narrativa, sintesi.
Ma rischiano anche di trasformare
il sé in una collezione curata di frammenti. Una scheda del personaggio, non un
personaggio.
C'è qualcosa che possiamo salvare
dai modelli antichi? Sì, ma solo se li reinterpretiamo.
Lo stoicismo, ad esempio, acquista
nuova rilevanza come strumento psicologico. La dicotomia del controllo, la
visualizzazione negativa, il disagio volontario: sono tecniche utili in un
mondo di incertezza. Non risolvono la crisi di significato, ma possono aiutarci
ad affrontarne i sintomi.
Anche l'attenzione di Aristotele
per l'abitudine e il carattere resiste all'esame critico. Ma il telos non può
più essere dato per scontato. Deve essere scelto. Questo, di per sé, è un
cambiamento radicale. La virtù antica richiedeva una sottomissione alla forma.
La virtù moderna può richiedere un impegno senza fondamento.
Paradossalmente, l'impegno deve
precedere la giustificazione.
Si sceglie di prendersi cura. Poi
si costruisce una vita attorno a quella cura. Figli, arte, giustizia, scienza,
amicizia. La buona vita non si trova. Si dichiara.
La bella vita, in questa
prospettiva, è meno una destinazione che un ambiente. Non si arriva. Si
partecipa.
Ma la partecipazione richiede
esclusione. Non si può fare tutto. Non si può essere tutti. Il sé deve imparare
a chiudere le porte.
È qui che il pluralismo
reintroduce silenziosamente la gerarchia. Non una gerarchia morale, ma una
necessità pragmatica. Bisogna scegliere una strada.
Viviamo in un'epoca in cui la
buona vita non è data. Viene abbozzata, cancellata, rivista. Spesso in
pubblico. Spesso sotto pressione.
L'etica antica presupponeva un
mondo stabile. Il nostro è in continuo mutamento.
La bella vita è un obiettivo
mobile. Ma bisogna comunque mirare.