"Questa bambina nascerà oggi, in un modo o nell'altro".
Non sono rimasto particolarmente scioccato quando l'ostetrica l'ha detto.
Era il nostro secondo figlio, quindi i segnali del travaglio erano familiari, inoltre la rottura delle acque era un chiaro segnale che il parto non sarebbe stato troppo lontano. Infatti, dopo poco tempo eravamo nella sala parto.
Era una stanza diversa dall'ultima volta, ma comunque la sensazione era la stessa. In un angolo c'era un letto, in un altro una vasca per il parto e da qualche parte una macchina emetteva un segnale acustico. Le pareti erano di un caldo colore marrone, che si abbinava alle coperte del letto, ma nel complesso la stanza aveva un'atmosfera clinica.
Con l'avanzare della serata era diventato chiaro che il parto non sarebbe andato come previsto. Il lungo protrarsi dell'attesa con dolori lancinanti di mia moglie era una triste premonizione di ciò che stava per accadere. La bambina stava diventando piuttosto stressata e qualcuno dei medici stava pensando per un taglio cesareo d'urgenza.
L'anestesista stava avendo molti problemi a farle l'epidurale e il mio amore era in preda a un'agonia più grande di quanto avrei mai potuto immaginare per un essere umano.
Le labbra morsicate a sangue parlavano da sole per l'intensità del dolore in corso. L'ostetrica faceva del suo meglio per cercare di calmarla. Le infermiere erano lì intorno, in attesa del momento in cui avrebbero potuto aiutarla. Uno dei dottori si avvicinò a me e mi disse con voce calma: "Se si passa all'anestesia generale non puoi rimanere nella stanza, ti verrà chiesto di andartene, comprendi?"
Capii cosa stava dicendo e mi sentii terrorizzato.
Potevo vedere la frustrazione sul volto dell'anestesista, non dava nessun segno di cauto ottimismo. Mi fu detto di fare un passo indietro, di non avvicinarmi.
Pochi minuti dopo il dottore venne da me e mi chiese di uscire dalla sala in silenzio. Mentre venivo scortato fuori dalla stanza detti un'ultima occhiata a mia moglie, in quel momento aveva un dolore così intenso che non credo si rendesse conto di cosa stava succedendo.
La scena era completamente caotica. L'anestesista la supplicava di stare ferma, le infermiere facevano del loro meglio per aiutarla a calmarsi e i dottori erano impegnati a infilare elettrodi su ogni lembo di pelle disponibile.
L'ostetrica era inginocchiata a terra e spingeva la testa tra le gambe aggrovigliate. Appoggiò uno stetoscopio sullo stomaco di mia moglie e, mentre me ne andavo, la sentii dire: "Non riesco a sentire forte il battito cardiaco della bambina".
Due secondi dopo ero solo in un corridoio deserto. Non ho idea di quanto tempo ho trascorso da solo, ma sono stati momenti terribili.
Mi sembrava che il tempo si fosse fermato. Volevo bussare alle porte e scoprire se stava andando tutto bene, ma sapevo che non potevo. Il silenzio assoluto del corridoio mi diventava assordante fino a stordirmi.
Mi guardai intorno e come se non ci cossi stato prima, finsi di studiarlo. Era un lungo corridoio con doppie porte su entrambe le estremità e diverse piccole stanze che si diramavano da esso. Era piastrellato con un orribile colore bianco avorio, intimidatorio.
"Non riesco a sentire forte il battito cardiaco della bambina." Cosa significava?
Significava solo che aveva difficoltà a localizzarlo?
Significava che la bambina si era mossa e lei non riusciva a trovare la direzione in cui si trovava? O significava sofferenza della bambina.
Sentivo la gola contrarsi, le lacrime formarsi mentre pensavo a quella possibilità. Sapevo che dovevo distrarmi da quei pensieri.
Ho iniziato a camminare avanti e indietro nel corridoio. Ho guardato il soffitto e contavo le luci. Perché gli ospedali devono essere così luminosi? Tutte le stanze fuori dal corridoio avevano le luci spente. Ho pensato che fossero per lo più sale di risveglio e non avrebbero avuto bisogno di essere sempre accese.
“Non riesco a sentire forte il battito cardiaco della bambina.” Le parole echeggiavano nella mia mente. Non avevo idea di cosa stesse succedendo oltre quelle porte del teatro.
Mi sedetti e appoggiai la schiena al muro, fissando una stanza per lo più vuota proprio di fronte a me. Non so perché la fissavo.
Pensavo, oggi dovremmo accogliere una nuova vita nel mondo, ma non sapevo quando … fra qualche minuto oppure serviranno ancora delle ore?
I pensieri mi stavano divorando dentro. Volevo rannicchiarmi, farli andare via. Le mie mani, appoggiate sulle ginocchia, iniziarono a tremare. A questo punto riuscivo a distinguere un orologio che ticchettava debolmente da un'altra stanza.
Pensai al nostro primogenito, a casa con i miei genitori. Si aspetterebbero la mia chiamata in questo momento. Quando riuscirò a chiamarli, cosa racconterò loro di queste mie ansie? Dovevo fermare questa agitazione, mi stava distruggendo, lo sentivo. Guardai il pavimento e provai a contare le piastrelle. Ce n'erano sei di larghezza, era facile misurarle. Quante saranno lungo il corridoio? Tutto serviva a distrarmi.
"Stai bene?"
Alzai lo sguardo. Un'infermiera era entrata nel corridoio. Come diavolo non l'avevo sentita entrare?
Spiegai la situazione, trattenendo quanta più emozione possibile. Non volevo che fosse coinvolta, sapevo che non c'era niente che potesse dire, non volevo che ci provasse.
"Beh, lì dentro sono in
buone mani." Mi disse.
Con ciò entrò in una delle stanze, afferrò qualcosa e uscì dal corridoio silenziosamente come vi era entrata.
Il silenzio mi circondava di nuovo facendomi ostaggio. L'orologio si era fermato? Perché non riuscivo a sentirlo? Mi fermai e lo ascoltai. Stava ancora ticchettando, avevo camminato in perfetta armonia con esso senza rendermene conto. Ora che mi ero fermato, tutti i pensieri che avevo evitato mi inondarono la mente. Mi sedetti di nuovo, le lacrime mi scorrevano sulle guance. Mi strofinai il viso per asciugarmi, gli occhi mi bruciavano.
Mi alzai, mi fermai davanti alla porta della sala operatoria, sforzandomi di sentire qualcosa provenire dall'interno. Non riuscivo a sentire alcun suono. Continuai a camminare, contando ancora le piastrelle mentre camminavo. Vidi il mio riflesso nella finestra tra il corridoio e una delle stanze e quasi non mi riconobbi.
Mi voltai in fondo al corridoio e fissai di nuovo le porte della sala operatoria. Non avevo idea di quanto tempo fosse trascorso. Tornavo indietro verso di loro, passavo e ripassavo. L'ho ripetuto molte volte, ogni volta sperando che la porta si spalancasse mentre arrivavo vicino.
Poi all'improvviso il silenzio fu rotto. Attraverso le porte della sala operatoria giunsero gli inconfondibili suoni di una bambina che piangeva.
Mi sedetti nuovamente sulla sedia più vicina. Questa volta lasciai che le lacrime scorressero liberamente.
Cinque minuti dopo l'ostetrica uscì dalla porta e mi permise di rientrare vedere il nostro neonato.
"Stanno entrambi bene, tua moglie si riprenderà alla grande. Tua figlia ha fatto un po' di capricci ... ha impiegato un bel po' di minuti per respirare da sola, ma ora sta benissimo. Non preoccuparti, la bambina ha sempre avuto ossigeno durante quel periodo ora va tutto bene".
Non passò molto tempo che fui accanto a mia moglie. Noi tre eravamo ancora insieme in quella sala operatoria che fino a poco tempo prima, fissavo le sue porte d'ingresso.
Con il braccio proteso su mia moglie, guardai verso il corridoio e ancora una volta vidi il mio riflesso nella finestra.
L'immagine che mi sorrideva, sembrava una persona molto diversa da quella che solo pochi istanti prima camminava avanti e indietro ansiosamente.
Ormai Bianca è al mondo con
noi.
Mia moglie è una guerriera!