venerdì 12 dicembre 2025

Coscienza e materia

 

Ammettere che coscienza e materia sono legate tra di loro, significa che l’osservatore è anche l’osservato.

Per esempio, esaminiamo la scena di una persona che apre la cassaforte tramite il meccanismo di immissione della combinazione segreta.

Nel momento in cui egli immette la combinazione, è un osservato, mentre, nel momento in cui controlla l’immissione, è un osservatore.

La figura che controlla ha coscienza dell’azione, mentre quella che opera porta in essere l’idea.

Le due figure appaiono legate da una gerarchia determinata dalla modalità con cui si rapportano.

Il grado di consapevolezza modula il rapporto e individua il livello di astrazione in cui la realtà apparente si manifesta separata dagli altri livelli.

Il mondo, associato al livello in cui l’osservatore si pone, rappresenta la realtà di quel livello, insieme a tutte le regole che la definiscono.

Quindi, in un certo momento, a un certo grado, ci poniamo su un livello della realtà stabilito dal rapporto coscienza-materia. In questa realtà, così individuata, gli elementi prendono la forma e la sostanza di competenza.

Portando a limite questo ragionamento, potremmo affermare che tutto esiste in un equilibrio stabilito tra coscienza e materia, e che queste operano in una specie di complementarietà, in termini di occupazione di spazio gerarchico.

La vita, per esempio, è il frutto di un preciso equilibrio fra coscienza e materia. Lo sbilanciamento verso la materia determina il corpo inanimato, mentre verso la coscienza determina lo spirito intelligente o l’anima. Nella gradualità infinita troviamo i livelli, ognuno con le proprie caratteristiche.

Agli estremi troviamo il vuoto assoluto e la pienezza di spirito; entrambi convergenti nell’unità universale.

È sbalorditivo, come questo concetto sia stato ribadito da Anassimandro, oltre 2500 anni or sono!

Ecco le sue parole: “... che principio degli esseri è l’infinito (àpeiron) ... da dove, infatti, gli esseri hanno l'origine, lì hanno anche la distruzione secondo necessità, poiché essi pagano l'uno all'altro la pena e l'espiazione dell'ingiustizia secondo l'ordine del tempo”. 

Che ci sia un nesso tra coscienza e materia, è innegabile! Basti pensare a quella caratteristica comune che possiamo riferire all’unione.

La materia, dal punto di vista della fisica classica, è densità di sostanza, cioè la massa presente nell’unità di volume, tenuta insieme dalle strutture interne più o meno rigide.

Quindi, lo stare insieme delle molecole è un po’ come “esistere insieme” in uno spazio limitato e condiviso.

La coscienza, per dualità, è un “conoscere insieme”, magari associato a un’intelligenza, per cui, fino a quando il sapere rimane circoscritto all’individualità, celato alla comunità, è un sapere sterile, destinato a vincere l’isolamento.

Ognuno di noi sicuramente avrà avuto l’esperienza di “prendere coscienza” di qualcosa. La differenza interiore sarà stata vissuta come un trauma, una rottura con un modo di pensare assolutamente personale, staccato dalla nuova realtà di cui diventiamo portatori.

Abbiamo l’impressione di aver sbagliato tutto e di aver vissuto in modo improprio, fuori dal segreto svelato dalla nuova convinzione.

In questi casi si dice: “Abbiamo preso coscienza del problema o della vera realtà”.

Il nostro atteggiamento è visibilmente diverso, molto più rivolto alla comunità e tendente alla conciliazione. Si tenta di ripartire con nuove energie, sicuri di portar con noi la verità di tutti, da cui precedentemente eravamo esclusi.

Il “qualcosa” del prendere coscienza, rappresenta ciò che includiamo nella comunità e che allarga i confini individuali.

Il modo di guardare il mondo o di intendere la vita, è strettamente connesso con il grado di comunione che abbiamo con l’universo.

Riprendendo i concetti della fisica classica, ricordiamo che le forze sono interazione tra masse, cioè esistono perché ci sono le masse.

Inoltre, esse tendono ad attrarsi in ragione diretta rispetto al valore delle loro masse e inversa rispetto alla loro distanza.

Masse grandi e vicine tra loro tendono a unirsi, mentre masse piccole e distanti tendono all’indifferenza.

Non vi appare suggestivo associare alla forza l’idea dell’amore?

La continua ricerca della comunione, il benessere associato allo “stare insieme”, la gioia derivante dalla condivisione, conduce all’amore come idea motrice dello spirito umano, consapevolezza di essere qualcosa, e quindi, coscienza. 

giovedì 11 dicembre 2025

Cara vecchia scuola. (Foucault)



Foucault sostiene che le forme moderne di potere siano emerse nel XVIII e XIX secolo da un cambiamento fondamentale. L'autorità passò da essere visibilmente centralizzata – si pensi alle esecuzioni pubbliche – a essere diffusa, anonima e interiorizzata. Il potere non era più al centro, esigendo sottomissione. Al contrario, si rese invisibile e concentrò l'attenzione direttamente su coloro che venivano osservati.

Non sorprende, quindi, che il sistema scolastico moderno sia emerso nella Prussia del XVIII secolo. Federico I introdusse l'istruzione obbligatoria per formare soggetti obbedienti, competenti e, soprattutto, disciplinati. Questi furono i primi modelli per la supervisione statale dell'istruzione in Europa. Dopo che la Prussia ebbe sufficientemente terrorizzato i suoi vicini, altre nazioni si unirono a loro: la chiave del potere non erano solo armi più potenti, ma scuole più grandi.

E così, la scuola emerse come un'istituzione progettata per formare cittadini idonei all'esercito. Dopo tanto tempo la struttura di base della scuola è cambiata di poco dai tempi del vecchio Federico I: io, l'insegnante, al centro dell'attenzione e tramite cui si trasmette la conoscenza. Sì, esistono pedagogie progressiste – classi capovolte, apprendimento basato sulla ricerca, cuccioli terapeutici e fogli di calcolo terapeutici – ma il nucleo rimane intatto. 

La scuola come istituzione, ridotta alla sua condizione sine qua non, presuppone un flusso di informazioni unidirezionale. Non importa quanto a bassa voce parliamo o quanto circolari siano le nostre disposizioni dei posti a sedere: la logica persiste. E questo flusso unidirezionale è effettivamente giustificato, perché serve al nobile obiettivo di aiutare gli studenti.

Ma ecco un collegamento più profondo che vale la pena sottolineare. In Sorvegliare e punire, Foucault sostiene che il sistema penale moderno non si è limitato a punire i crimini, ma ha inventato un nuovo oggetto di conoscenza: il delinquente. Questa figura non è stata scoperta; è stata prodotta, studiata, catalogata attraverso reti di esperti, discorsi e pratiche.

Vista in questi termini, la scuola ha prodotto qualcosa di analogo: lo studente. Non semplicemente un discente, ma un oggetto di conoscenza. Al posto dei criminologi, abbiamo insegnanti, consulenti, responsabili pastorali. L'intera istituzione è strutturata per raccogliere, gestire e utilizzare le informazioni: amministrativamente attraverso report e database, pedagogicamente attraverso voti, commenti e valutazioni.

Ogni interazione tra adulti e minori in una scuola serve, direttamente o indirettamente, ad alimentare la macchina dell’informazione. Non che sia necessariamente sinistra: spesso è benevola, benintenzionata, attivamente sostenuta da governi e genitori. Ma è pur sempre una macchina, e come tale, non si può fare a meno di pensare che nasconda qualcosa in contrasto con la vita.

Anche gli insegnanti non siamo al di fuori di questa macchina. Anche loro diventano oggetti di conoscenza per l'istituzione: registri degli stipendi, osservazioni delle lezioni, valutazioni delle prestazioni, checklist per lo sviluppo professionale. La scuola che esige trasparenza dagli studenti la esige altrettanto da noi.

Allargando lo sguardo, diventa chiaro: nessuno è esente. Persino coloro che impartiscono gli ordini sono soggetti a un altro sguardo, a un'altra metrica, a un altro protocollo.

Ma i più vulnerabili sono, ovviamente, i bambini. Non hanno mai firmato un contratto sociale. Su fidano perché non hanno alternative. Tutta la loro esperienza di essere al mondo è plasmata da istituzioni che li definiscono principalmente attraverso ciò che possono misurare e conoscere di loro. La tragedia non è che un tempo fossero liberi e ora siano sottomessi, ma che la sottomissione sia il loro primo e principale modo di essere.

La scuola è costruita – fisicamente e concettualmente – per mantenersi e riprodursi. Le campane, gli orari, i corridoi, le file di banchi. Gli studenti si muovono in sincronia; la collaborazione è incoraggiata, i valori sono sostenuti. Chi si rifiuta o non riesce a stare al gioco diventa oggetto di un controllo e di una "cura" ancora maggiori.

Le origini di questo potere non sono nei muri o nelle politiche. Risiedono nelle abitudini, nella storia, nelle strutture sociali e in profonde dinamiche esistenziali: nella scissione tra Io e Super-Io, nella repressione, nell'alienazione. La scuola è semplicemente uno dei teatri in cui queste forze si manifestano: silenziose, anonime e implacabili come gli dei greci.

L'unica speranza, se ce n'è una, è che la scuola – come molti luoghi tradizionali del potere – stia esalando gli ultimi respiri. In un mondo sempre più definito da iper-trasparenza e flussi informativi decentralizzati, un'istituzione rigida basata su una comunicazione gerarchica e unidirezionale fatica a giustificare la propria esistenza. Questo non significa che il potere svanirà; solo che muterà, trovando nuove forme di espressione.

Eppure, la scuola resiste. Forse perché appare innocua. Forse perché rimane profondamente radicata nell'immaginario collettivo di genitori, politici e cittadini. O forse semplicemente perché non esiste un sostituto ovvio – nessuna struttura altrettanto comoda per selezionare, supervisionare e formare i giovani.

mercoledì 10 dicembre 2025

Un Amore mai vissuto


 

Sospesa al filo dei pensieri, volteggio tra idee strane e indistinguibili. 

Cerco il viso di me stessa nella chiave di lettura del mistero che mi ospita. 

Volteggiandomi, vedo a corto raggio solo ombre.

Consolazione afferro, mentre vorrei riconoscere il buio per nascondere la pochezza alla consapevolezza e cercare la complicità nella fatica dell’insistenza. 

Mi arrendo alla triste certezza, sapendo che non è un rimandare ma una rinuncia per sempre. 

I miei poveri minuti corrono avanti alle promesse, distaccano le speranze e frenano soltanto alla voce di una testarda coscienza. 

La baldanza di presumere un futuro infinito si scioglie come neve al sole cocente di una maturità inalienabile. 

Domani sarà un altro giorno ed io non sarò più la stessa di oggi. 

Quel domani, certo soltanto nella speranza, porterà una sorpresa nello specchio. 

Inesorabile, chiederà conto per quell’immobilità che oggi si chiama ozio e che domani sarà impossibilità. 

Catturo ogni attimo di vita poiché il prossimo non sarà uguale. 

Afferro ogni piccola opportunità vestendola col sorriso e celebrandola con la gioia del condividere. 

Sperimento i sentimenti che soltanto da vivi hanno senso. 

Percuoto con le emozioni questo mio corpo umano, nato per deperire e provare a disegnare un confine all’Amore.

 

Tratto dal romanzo "Danil", Edito Cinquemarzo

martedì 9 dicembre 2025

Il tempo non è lineare. (Bergson)



Bergson viene spesso liquidato come un metafisico astratto, ma in realtà fornisce strumenti pratici. La sua critica del "tempo spazializzato", ovvero il trattamento dei momenti come unità intercambiabili su una linea temporale, suggeriscono modi concreti per rimodellare elementi importanti della vita quotidiana.

L'argomentazione centrale di Bergson è che misuriamo il tempo come misuriamo lo spazio, dividendolo in unità uniformi affiancate. Sebbene questo metodo funzioni per gli orari dei treni, trascura un aspetto fondamentale: l'esperienza reale non funziona in questo modo.

Quando ricordi la conversazione di ieri, ad esempio, il ricordo è influenzato dal tuo umore di questa mattina, da ciò che è successo da allora e da associazioni più vecchie. Il passato e il presente si compenetrano: ogni ricordo rimodella la tua percezione attuale e ogni nuova esperienza riorganizza la tua comprensione del passato.

Questa è la durata: un flusso continuo e qualitativo in cui i momenti si fondono insieme anziché accumularsi come blocchi. Bergson distingueva tra molteplicità quantitativa e qualitativa. La molteplicità quantitativa implica il conteggio degli oggetti, mentre la molteplicità qualitativa implica stati di coscienza che si fondono e si compenetrano.

La durata è qualitativa e eterogenea, con ogni momento che ha una sua consistenza. È anche cumulativa in quanto il passato non svanisce, ma plasma attivamente il presente dall'interno.

Abitualmente traduciamo le nostre esperienze in metafore spaziali. "Trascorrere" e "risparmiare" tempo, ad esempio. Sebbene queste metafore siano utili per la comunicazione, possono essere dannose se interiorizzate come l'unico modo legittimo di vivere il tempo. Giudichiamo le nostre vite in base a parametri esterni. Ad esempio, la colazione diventa "troppo lunga" o "abbastanza veloce" invece di essere vissuta in sé stessa.

I momenti contengono strati che le unità di tempo uniformi dell'orologio non possono catturare.

Occorre fare esperienza del percepire la durata nelle transizioni.

Scegli un'attività comune, come camminare dalla scrivania alla cucina o aspettare trenta secondi in ascensore. Osserva senza guardare l'orologio. Invece di affrettarti, presta attenzione alle sue dimensioni qualitative. Il momento sembra breve? Sembra infinito? Lascia che i ricordi affiorino da soli. Lascia che la tua anticipazione colori il momento presente senza saltare al futuro.

L'intervallo non corrisponderà al tempo misurato da un orologio. A volte trenta secondi si riducono a zero. Altre volte, si allungano. Stai percependo la durata.

Quindi, cattura l'essenza dell'intervallo in una breve descrizione. Concentrati sul suo carattere, non sulla sua durata. La frase specifica conta meno dell'attenzione sulla qualità rispetto alla quantità.

L'impulso vitale di Bergson (élan vital) rappresenta la tendenza creativa insita nella vita. È una capacità di improvvisazione continua che genera nuove forme invece di ricombinare meccanicamente gli elementi. Per Bergson, l'evoluzione non è solo la selezione di mutazioni casuali; è un processo creativo che produce variazioni imprevedibili.

La coscienza partecipa a questo processo. Non ci limitiamo a elaborare informazioni. Abbiamo la capacità di inventare cose che non potevano essere previste da ciò che è venuto prima.

Tuttavia, la vita moderna inibisce questa capacità. Ottimizziamo, stabiliamo obiettivi e misuriamo i progressi. Consideriamo la creatività come una forma di problem-solving, identificando il risultato desiderato e procedendo a ritroso attraverso i passaggi necessari. Questo approccio presuppone che il futuro sia essenzialmente predeterminato.

Creare senza obiettivi predeterminati ci permette di realizzare qualcosa di nuovo.

Bergson credeva che la libertà non consista nello scegliere tra opzioni predeterminate, ma piuttosto nel creare nuove possibilità attraverso la durata vissuta. Siamo veramente liberi quando le nostre azioni emergono dalla nostra esperienza accumulata piuttosto che da reazioni meccaniche.


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