giovedì 15 maggio 2025

La vita è sofferenza (secondo Schopenhauer)


Il pessimismo è una visione filosofica del mondo sviluppata nel XIX secolo principalmente e soprattutto dal filosofo tedesco Arthur Schopenhauer (1788-1860). Il pessimismo sostiene che la sofferenza sia intrinseca alla vita e promuove la rinuncia ascetica in risposta alle avversità della vita, volta a seguire uno stile di vita retto ed etico e a coltivare la comprensione come strumento importante per riconoscere e affrontare le difficoltà e le innumerevoli occasioni insite nella vita.

La filosofia di Schopenhauer fu ampiamente influenzata dalla metafisica e dall'etica dell'Induismo, del Buddismo e del Cristianesimo, nonché dai filosofi Platone e Kant. La principale formulazione matura della filosofia di Schopenhauer, "Il mondo come volontà e rappresentazione", conserva stilisticamente molti elementi della filosofia di Immanuel Kant – incluso l'uso di termini astratti come a priori e a posteriori, soggetto e oggetto, puro ed empirico – ma li usa al servizio della formazione della propria visione del mondo. Il Mondo come Volontà e Rappresentazione è un testo filosofico fondamentale e di grande importanza. Le dottrine etiche del Buddismo e del Cristianesimo si riflettono in particolare nell'etica pessimistica di Schopenhauer.

Il Buddismo è una religione fondata in India intorno al V secolo a.C. da un principe indiano noto come Siddhartha Gautama. Secondo la leggenda, all'età di 29 anni, Siddhartha Gautama fece tre viaggi in carrozza, durante i quali prese atto dell'esistenza della vecchiaia, della malattia e della morte. Durante un quarto viaggio in carrozza, osservò un sant'uomo che praticava l'ascetismo e decise di abbandonare la sua vita di prosperità e agi per iniziare la propria pratica religiosa ascetica. Rendendosi conto che i piaceri della vita sono transitori, cercò istruzioni da maestri nella foresta, iniziando una pratica ascetica di rinuncia, digiuno e meditazione. Si dice che abbia trovato solo ulteriore sofferenza in questa pratica, interrompendo il digiuno e poi sedendosi sotto un albero a meditare a lungo, prima di raggiungere il nirvāṇa, o Illuminazione, rispondendo alla domanda sull'origine della sofferenza e sul modo per interromperne il ciclo. Espresse questa consapevolezza nella forma delle Quattro Nobili Verità e del Nobile Ottuplice Sentiero.

Le Quattro Nobili Verità affermano: che la vita è sofferenza (dukkha), che il sorgere (samudaya) della sofferenza è causato dal desiderio e dall'attaccamento, che esiste una via per la cessazione (nirodha) della sofferenza e che esiste una via (mārga) per la cessazione della sofferenza, il Nobile Ottuplice Sentiero.

Il Nobile Ottuplice Sentiero espone otto pratiche da coltivare per raggiungere l'illuminazione e un carattere nobile: retta visione, retta determinazione, retta parola, retta condotta, retti mezzi di sussistenza, retto sforzo, retta consapevolezza e retta concentrazione.

Il Buddha insegnò anche la "Via di Mezzo", l'evitamento degli estremi, la pratica della consapevolezza, l'accettazione del cambiamento e il seguire il Nobile Ottuplice Sentiero.

Gli insegnamenti del Buddha esercitarono una notevole influenza sullo sviluppo della filosofia pessimistica di Schopenhauer, nella sua promozione dell'ascetismo e della rinuncia al desiderio.

Anche gli insegnamenti di Gesù influenzarono ampiamente lo sviluppo della filosofia pessimistica. La sua promozione nel Nuovo Testamento della non violenza e dell'ascetismo – donare ricchezze e beni ai poveri, porgere l'altra guancia, amare i propri nemici, perdonare le offese, ecc. – rappresenta un'etica della rinuncia mutuata dal pessimismo. La crocifissione di Gesù, sosteneva Schopenhauer, rappresenta un atteggiamento pessimista nei confronti della vita, fornendo una risposta religiosa al perenne problema della sofferenza nel mondo. Gli insegnamenti morali di Gesù sono noti per guidarci verso un cammino di rinuncia e di crescita del carattere, anche nonostante e a causa delle difficoltà della vita.

Oltre al suo contributo alla filosofia pessimista, il cristianesimo ha esercitato un'influenza significativa sulla storia della filosofia in generale. All'interno della tradizione cristiana, così come in quella ebraica e musulmana, la filosofia svolge un ruolo significativo e importante.

Sant'Agostino (354-430 d.C.), prima di diventare santo, era un grande cultore di filosofia e fu attratto da una setta nota come manicheismo (da cui in seguito avrebbe preso le distanze), oltre a leggere filosofi neoplatonici come Plotino, prima di affermarsi come autore cristiano, argomenti che discute ampiamente nelle sue Confessioni. Questi autori e spiritualità "pagani" avrebbero influenzato lo sviluppo di Agostino, sebbene egli ne avrebbe preso le distanze da pensatore maturo.

San Tommaso d'Aquino (1225-1274) rimase profondamente colpito dagli scritti di Aristotele, che egli stesso definisce "il Filosofo". Nella sua Summa Theologica – un'opera di non piccola portata, che ispirò Dante, la cui Divina Commedia è stata definita "la Summa in versi" – Tommaso si appropria di elementi del metodo di indagine di Aristotele e spesso riferisce la materia delle sue dimostrazioni alla struttura logica del pensiero stabilita da Aristotele, in particolare nella sua Metafisica. È importante sottolineare che San Tommaso avrebbe descritto la filosofia come "l'ancella della teologia", riferendosi ai punti in comune esistenti tra le due attività, ma in definitiva preferendo l'autorità della teologia agli oggetti più speculativi e, presumibilmente, divergenti e relativistici della filosofia.

Questo rapporto storico tra filosofia e teologia cristiana avrebbe influenzato significativamente lo sviluppo della storia della filosofia. È in questo contesto storico sincretico che potremmo anche affrontare l'influenza del cristianesimo sulla filosofia del pessimismo; e lo stesso Schopenhauer fa riferimento ai "filosofi scolastici" nel capitolo II di "Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente", dove discute l'influenza del principio di ragion sufficiente su Platone e Aristotele: gli scolastici, infatti, erano stati profondamente influenzati da Aristotele, il quale ne dà per scontata una certa familiarità pur non affrontandolo specificamente.

"Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente" fu la tesi di dottorato di Schopenhauer, pubblicata nel 1813. "La quadruplice radice" inizia esponendo l'importanza dei due processi filosofici opposti di unione e separazione degli oggetti del pensiero, associando il primo a Platone e il secondo a Kant. Gottfried Leibniz (1646–1716), in particolare, aveva discusso il principio di ragion sufficiente nel suo libro "Monadologia", affermando che se qualcosa accade, deve esserci una causa che ne spieghi il motivo. Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente si propone di sviluppare le osservazioni di Leibniz e di delineare quattro classi del principio di ragion sufficiente: divenire, conoscere, essere e volere. Il mondo come volontà e rappresentazione si basa su e presuppone la familiarità con la Sulla quadruplice radice del principio di ragion sufficiente, così come con la filosofia di Kant, in particolare con la Critica della ragion pura. Schopenhauer considerava la propria filosofia come una qualificazione di quella di Kant e una correzione di alcuni errori nel metodo kantiano. Riguardo alla primaria rilevanza scientifica del principio di ragion sufficiente, Schopenhauer scrive:

"Ora, poiché è proprio questo presupposto a priori che tutte le cose debbano avere una loro ragione, che ci autorizza ovunque a cercare il perché, possiamo tranquillamente chiamare questo perché la madre di ogni scienza."

Aristotele è citato da Schopenhauer nella sua Metafisica (i. 3) per aver distinto:

"[…] con notevole ampiezza che conoscere e dimostrare che una cosa esiste è cosa molto diversa dal conoscere e dimostrare perché esiste: ciò che egli rappresenta come quest'ultimo è la conoscenza della causa; come il primo, la conoscenza della ragione.

Il principio di ragion sufficiente rappresenta per Schopenhauer l'inevitabilità della causalità e, per estensione, la struttura della ragione e dei dati empirici, ed è importante sia per la sua metafisica che per la sua etica.

La filosofia di Schopenhauer trova la sua espressione matura nel "Il mondo come volontà e rappresentazione". In quest'opera, Schopenhauer espone ampiamente le sue idee su estetica, etica e metafisica.

Nella prima sezione dell'opera, Schopenhauer inizia più o meno come altri filosofi, ovvero partendo dall'esperienza.

Pertanto, nessuna verità è più certa, più indipendente da tutte le altre e meno bisognosa di prove di questa: che tutto ciò che esiste per la conoscenza, e quindi l'intero mondo, è solo oggetto in relazione al soggetto, percezione del percettore, in una parola, rappresentazione. Tutto ciò che in qualche modo appartiene e può appartenere al mondo è inevitabilmente associato a questo essere condizionato dal soggetto, ed esiste solo per il soggetto. Il mondo è rappresentazione.

Quindi, mentre per Kant il problema di raggiungere la comprensione noumenica passava attraverso l'impiego della ragione a priori, per Schopenhauer il raggiungimento della conoscenza del mondo deve essere mediato dal soggetto pensante, cioè condizionato dalla rappresentazione. Ciononostante, Schopenhauer attribuisce a Kant l'errore di trascurare proprio questo principio.

Per Schopenhauer, citando Sir William Jones in "Sulla filosofia degli asiatici",

"[…] esistenza e percettibilità sono termini convertibili". Queste parole esprimono adeguatamente la compatibilità tra realtà empirica e idealità trascendentale.

Quindi, Schopenhauer si dimostra impegnato a rinunciare a certe complessità e difficoltà sollevate dalla filosofia a priori di Kant, volta a raggiungere la consapevolezza della realtà noumenica attraverso la ragione pura – la pura astrazione. In questa prima sezione, Schopenhauer prende esplicitamente le distanze dalla nozione di cosa in sé di Kant:

“[…] poiché questo mondo è, da un lato, interamente rappresentazione, così come, dall'altro, è interamente volontà. Ma una realtà che non è né l'una né l'altra, bensì un oggetto in sé (in cui anche la cosa in sé di Kant è purtroppo degenerata nelle sue mani), è il fantasma di un sogno, e la sua accettazione è un ignis fatuus in filosofia.”

Schopenhauer considera la cosa in sé una libertà da parte di Kant, ed è facile comprendere come il tentativo di impiegare solo principi a priori per raggiungere la realtà fondamentale delle cose possa sviare il progetto filosofico. (Tuttavia, a merito di Kant, sembra anche difficile dimostrare che "esistenza e percettibilità sono termini convertibili". È abbastanza facile immaginare un oggetto con proprietà paragonabili a quelle dello spettro invisibile della luce, che può esistere, ma rimane inaccessibile alla nostra percezione.)

In un modo che prefigura l'importanza della soggettività tra gli esistenzialisti e i fenomenologi (e ad esempio l'intersoggettività nella filosofia di Husserl e Lévinas), Schopenhauer delinea il primato del soggetto:

Ciò che conosce tutte le cose e non è conosciuto da nessuno è il soggetto. È di conseguenza il sostegno del mondo, la condizione universale di tutto ciò che appare, di tutti gli oggetti, ed è sempre presupposto; poiché tutto ciò che esiste, esiste solo per il soggetto.

Quindi, per Schopenhauer, la soggettività assume un ruolo primario nel determinare la nostra esperienza del mondo.

La costituzione stessa della rappresentazione è qui resa evidente:

Ognuno si trova come questo soggetto, ma solo nella misura in cui conosce, non nella misura in cui è oggetto di conoscenza. Ma il suo corpo è già oggetto, e quindi da questo punto di vista lo chiamiamo rappresentazione. Il corpo, infatti, è oggetto tra gli oggetti ed è subordinato alle leggi degli oggetti, pur essendo oggetto immediato.”

È qui che Schopenhauer (forse in risposta alla difesa che abbiamo fatto di Kant) rivela la rilevanza del principio di ragion sufficiente.

Egli spiega che “[...] ogni oggetto possibile gli è subordinato, cioè si trova in una relazione necessaria con altri oggetti, da un lato come determinato, dall'altro come determinante. Ciò si estende a tal punto che l'intera esistenza di tutti gli oggetti, in quanto oggetti, rappresentazioni e nient'altro, è ricondotta interamente a questa loro relazione necessaria reciproca, consiste solo in quella relazione, ed è quindi interamente relativa […].”

Quindi, per Schopenhauer, il principio di ragion sufficiente è assunto come prova dell'interrelazione di tutti gli oggetti tra loro – un'inferenza formidabile. Non si dà necessariamente per scontato che tutti gli oggetti siano accessibili a noi, ma piuttosto che tutti gli oggetti debbano relazionarsi tra loro, obbedendo così a determinate leggi fondamentali e relazioni relative.

Questo sembra prefigurare la sua espressione di etica, poiché ci ricorda la nozione di vuoto nel Buddhismo, secondo cui nulla esiste se non in relazione ad altre cose.

Schopenhauer inizia il secondo libro del “Il mondo come volontà e rappresentazione”, in cui intraprende una riflessione sulla volontà, con una ricapitolazione della riflessione sulla rappresentazione in quanto tale.

Rivolgiamo la nostra attenzione alla matematica, alle scienze naturali e alla filosofia, ciascuna delle quali nutre la speranza di fornire una parte delle informazioni desiderate. In primo luogo, scopriamo che la filosofia è un mostro dalle molte teste, ognuna delle quali parla una lingua diversa. Naturalmente, non sono tutte in disaccordo tra loro sul punto qui menzionato, il significato della rappresentazione della percezione. Infatti, ad eccezione degli scettici e degli idealisti, gli altri parlano in modo piuttosto coerente di un oggetto che costituisce la base della rappresentazione. Questo oggetto è in effetti diverso in tutto il suo essere e la sua natura dalla rappresentazione, ma tuttavia le somiglia in ogni aspetto tanto quanto un uovo è simile a un altro.

Nel quarto libro del primo volume, Schopenhauer intraprende una discussione sull'etica. A differenza di Kant, prende le distanze dalle teorie normative dell'etica astrattamente interessate:

Il punto di vista esposto e il metodo di trattazione annunciato suggeriscono che in questo libro etico non ci si debba aspettare alcun precetto, alcuna dottrina del dovere; ancor meno verrà esposto un principio morale universale, una ricetta universale, per così dire, per produrre tutte le virtù. Inoltre non parleremo di un "dovere incondizionato", poiché ciò implica una contraddizione [...]; né di una "legge per la libertà", che si trova nella stessa posizione. In genere non parleremo affatto di "dover volere", poiché parliamo in questo modo ai bambini e ai popoli ancora nella loro infanzia, ma non a coloro che si sono appropriati di tutta la cultura di un'età matura. È infatti una contraddizione palpabile chiamare libera la volontà e tuttavia prescriverle leggi in base alle quali deve volere. [...] La volontà determina sé stessa, e con essa anche la sua azione e il suo mondo; poiché oltre a essa non c'è nulla, e questi sono la volontà stessa.

Quindi, per Schopenhauer, il procedimento generale di quella branca della filosofia nota come etica ci pone alcuni problemi; il "dover volere" contraddice la natura di ciò che significa volere.

Si spera che i primi tre libri abbiano prodotto la conoscenza distinta e certa che lo specchio della volontà le è apparso nel mondo come rappresentazione. In questo specchio la volontà conosce sé stessa in gradi crescenti di distinzione e completezza, il più alto dei quali è l'uomo. La natura interiore dell'uomo, tuttavia, riceve la sua completa espressione soprattutto attraverso la serie concatenata delle sue azioni. La connessione autocosciente di queste azioni è resa possibile dalla facoltà della ragione, che gli permette di contemplare il tutto in astratto.

Per Schopenhauer, la rappresentazione è in un certo senso il riflesso della volontà stessa, che incarna le cose dell'universo. La volontà scopre i propri motivi e il proprio moto nel suo riflesso nel soggetto, come rappresentazione:

La volontà, considerata puramente in sé, è priva di conoscenza, ed è solo un impulso cieco e irresistibile, come la vediamo apparire nella natura inorganica e vegetale e nelle loro leggi, e anche nella parte vegetativa della nostra stessa vita. Attraverso l'aggiunta del mondo come rappresentazione, sviluppata al suo servizio, la volontà ottiene la conoscenza del proprio volere e di ciò che vuole, vale a dire che questo non è altro che questo mondo, la vita, esattamente come esiste. Abbiamo quindi chiamato il mondo fenomenico lo specchio, l'oggettività della volontà [...].”

Per Schopenhauer, a differenza di Kant, il mondo è mediato e messo in relazione al soggetto attraverso la volontà, e non c'è dubbio che ciò che percepiamo come mondo sia in realtà ciò che il mondo è. In questo modo aggiriamo ciò che può apparire come un ostacolo in Kant, la distinzione tra fenomeno e noumeno. Così Schopenhauer rompe con Kant:

Che la volontà in quanto tale sia libera deriva già dal fatto che, secondo la nostra concezione, essa è la cosa in sé, il contenuto di tutti i fenomeni. Il fenomeno, d'altra parte, lo riconosciamo come assolutamente subordinato al principio di ragion sufficiente nelle sue quattro forme.”

Il principio di ragion sufficiente ci fornisce il fondamento su cui la certezza dei fenomeni diventa possibile, fornendo cause ed effetti ai fenomeni e ai loro comportamenti. La nostra volontà, e la libertà di agire e di scegliere come agire, è la base della nostra interazione con i fenomeni.

Per Schopenhauer, la volontà è condizionata dai fenomeni e deve pertanto attenersi al principio di ragion sufficiente.

"- L'uomo può fare ciò che vuole, ma non può volere ciò che vuole -.

Questa affermazione porta a conseguenze interessanti alla luce della sua visione ascetica dell'etica, poiché apre l'apparenza di un mondo duro e crudele alla prospettiva di un paradigma morale incentrato sulla mitigazione della sofferenza. Poiché la volontà non è realmente libera, ed è condizionata dal suo passato, dai suoi gusti, dalle sue avversioni, ecc.,

la sofferenza che causiamo è, in un certo senso, il risultato della nostra mancanza di libertà piuttosto che della nostra libertà. Il lavoro di autocoscienza è in una certa misura opera della filosofia e rappresenta una responsabilità fondamentale per la, per così dire, "liberazione" della volontà.

Tuttavia, la lontananza, anzi l'apparenza di una completa differenza tra i fenomeni della natura inorganica e la volontà […] deriva principalmente dal contrasto tra la conformità alla legge, del tutto determinata, [principio di ragione] in un tipo di fenomeno e l'arbitrarietà apparentemente irregolare nell'altro.”

Quindi, per Schopenhauer, l'individualità di una persona agisce sulla sua volontà quasi come il principio di ragione agisce sugli oggetti. Il motivo di un'azione è solo una delle forze che influenza la volontà, tra altri fattori, come le proprietà degli oggetti e la loro influenza sull'individualità e sulle motivazioni della persona che agisce. L'etica di Schopenhauer non lascia spazio significativo all'azione incondizionata e "libera", ma la conoscenza del fattore della condizionalità della volontà permette di perseguire l'autocoscienza, attraverso la quale la volontà giunge a conoscere se stessa, e quindi una maggiore espressione del libero arbitrio così come è comunemente concepito.

La mancanza di libertà ultima della volontà, nell'etica di Schopenhauer, rimanda al carattere individuale di una persona e al principio di ragion sufficiente, che agisce sia sugli oggetti che sull'individualità. Questa duplice azione del principio di ragion sufficiente getta un'ombra sulla semplice espressione della vera libertà della volontà. Le motivazioni preesistono nella volontà, come esempi del principio di ragion sufficiente che agisce sulla volontà e ne limita le possibilità.

La ricerca della libertà da tali condizioni rappresenta una preoccupazione universale che riguarda tutte le persone. Molti si perdono in un ciclo – che richiama il concetto di samsara nel Buddhismo – di istinti e motivazioni che limitano la loro libertà e gettano un'ombra sulla loro conoscenza di sé. Potremmo concepire l'obiettivo dell'etica di Schopenhauer come quello di condurci verso una maggiore conoscenza di noi stessi, consentendoci così di vivere bene la nostra vita, nonché di impegnarci in una pratica volta a comprendere la sofferenza e le azioni degli altri, riconoscendo che, in un certo senso, non sono veramente liberi.

La famosa "negatività" della filosofia del pessimismo si rivela quindi una visione forse poco lusinghiera della libertà e dell'azione umana, riconducendole alla miseria e alla sofferenza della vita causate dagli esseri gli uni verso gli altri. La filosofia di Friedrich Nietzsche, ad esempio – che si può sostenere fosse in gran parte una risposta alla filosofia di Schopenhauer – serve come risposta a questo presunto cinismo e si presenta come una filosofia più fiduciosa e persino ottimista. Ma c'è qualcosa da dire sulla dignità e la speranza della filosofia di Schopenhauer, poiché rende in termini più o meno semplici le complessità e la sofferenza insite nella vita.

mercoledì 14 maggio 2025

Illusione di grandezza


Illuditi di essere unico e speciale!

L’illusione ti durerà per il tempo che serve al tuo corpo per invecchiare.

Il corpo con la sua biologia è il vero dittatore della tua vita.

Alla nascita è troppo tenero perché comandi e troppo debole per illudere.

Non sai nemmeno di esistere!

Devi avere i venti anni per capire che ti serve studiare per dare sostegno all’idea di potenza.

Contemporaneamente non prendi in considerazione che dopo un certo numero di anni sarà tutto finito.

Nella maturità, dopo tanto sforzo, tenti di capire quali risultati ti ha dato la potenza acquisita.

Si solleva qualche dubbio: forse non è stata utilizzata al meglio o non ha dato i risultati sperati?

Lentamente si prende coscienza!

I nostri pensieri sono frutto di una momentanea combinazione biologica che la natura regala sottoforma di miracoli del caso e che noi, poveri illusi ed egocentrici, ci immaginiamo depositari del privilegio e dell’unicità.

La coscienza che influisce sulla natura della luce

Albert Einstein - David Bohm


Energia e Luce sono responsabili di uno straordinario meccanismo impensabile a chi, immerso nel suo mondo vegetativo, non ha mai provato ad allontanarsi dal pensiero comune.

La descrizione di questo meccanismo potrebbe benissimo apparire come una volontà di discutere sul paranormale o di miraggi e fantasmi.

L’incredulità o un cortese scetticismo circonda normalmente queste argomentazioni.

Due studiosi, David Bohm, eminente fisico, e Karl Pribram, audace neuropsicologo, percorrendo due strade diverse nella prateria del sapere, sono giunti a una stessa determinazione.

Entrambi hanno scoperto come Luce ed Energia prendono in gioco il genere umano, forzando i limiti del suo sistema sensoriale, per costruire uno stupendo mondo illusorio molto vicino a miraggi e incantesimi.

Pribram, in seguito a sperimentazioni eseguite su cavie, non si spiegava perché asportando alcune parti del cervello, dove riteneva che si allocassero i nostri ricordi, questi non si riducevano, ma continuavano a rimanere nitidi. Non volle crederci, quando proseguendo con l’asportazione, fino a interessare una consistente percentuale della massa cerebrale, riscontrò l’intontimento e non la perdita selettiva di memoria della cavia.

Il riscontro gli giunse anche da colleghi che erano intervenuti su pazienti che, in seguito ad incidenti stradali, avevano subito l’asportazione o il danneggiamento di parti del cervello. Ciò lo indusse a pensare che la funzione di memoria fosse un’attività esercitata dal cervello nel suo complesso; come se fosse disseminata sull’intera superficie. Egli, però, non conosceva nessun meccanismo scientifico a cui poter ricondurre questa caratteristica.

Tutto questo non lo faceva stare nella pelle.

Immaginatevi come poteva essere la vita di questo povero signore che alternava momenti di stupore, in cui si voleva convincere che il fenomeno doveva essere frutto di una magia imperscrutabile, a momenti in cui ammetteva di non capirci più nulla, ritenendo impossibile trovare una spiegazione.

In un’altra università Bohm non si spiegava perché la luce aveva una duplice veste: a volte appariva come particelle in fuga forsennata, a volte come ordinati fronti d’onda che si espandevano nello spazio. Il fatto che lo faceva letteralmente impazzire di curiosità, era la sorprendente capacità di attraversare contemporaneamente due fori posti perpendicolarmente alla direzione di propagazione della luce.

Un altro illustrissimo fisico come Niels Bohr aveva fornito una spiegazione, ma appariva tanto divertente quanto fantasiosa, per cui gli era quasi impossibile solo prenderla in considerazione. Tanto più che, il grande Einstein la contrastava apertamente.

Per addurre comunque una spiegazione al fenomeno, pensò che la luce potesse essere una grande giocherellona; quando veniva guardata dall’occhio umano, diventava particelle in movimento, altrimenti assumeva la sua veste naturale, cioè quella ondulatoria.

Einstein, avendo postulato che nulla è più veloce della luce e avendo costruito la teoria del quanto per cui ricevette il premio Nobel nella fisica, avrebbe dovuto restituirlo, poiché le conseguenze logiche della teoria di Bohr avrebbero smentito tutto.

Einstein, insieme a un suo collega Podolsky, intervenne con un documento scritto, con cui spiegava come la nuova teoria di Bohr fosse errata.

I due scienziati ipotizzando la correttezza della teoria, non giustificavano come si potesse passare dalla forma ondulatoria a quella corpuscolare con il semplice atto di osservare la luce. Ammettendo comunque possibile la fantastica ipotesi di Bohr, si chiedevano a quale velocità potrebbe avvenire la comunicazione fra due fronti d’onda lontani tra loro, se al semplice puntamento dello sguardo la trasformazione fosse già completata.  Poiché la vista acquisisce le informazioni attraverso la luce, le particelle dovrebbero comunicare a una velocità maggiore della luce stessa affinché lo sguardo constati la nuova forma assunta.

Questa conclusione trova netta contrapposizione al principio indiscutibile che non c’è nulla di più veloce della luce.

Bohr intimamente sapeva che la sua teoria aveva bisogno di un supporto razionale più consistente per poterla difendere, ma mantenne la sua posizione con un chiarimento che produsse solo l’effetto di elevare il tono polemico nell’ambiente scientifico.

Egli precisò che la luce non assumeva i due modi alternandosi a seconda se lo sguardo umano fosse allineato o non, ma esisteva solo quando essa appariva come particelle ridenti e quindi, non sussistevano fotoni che avrebbero dovuto comunicare.

Pertanto la luce poteva mantenere il suo primato di velocità.

In altre parole, Bohr faceva notare che era errato il modo di porre l’obiezione in quanto il mondo subatomico non ammette suddivisioni in parti isolate e autonome.

Einstein, per non creare ulteriore imbarazzo al pur famoso collega, ammise che l’esplorazione del mondo subatomico era ancora un passo incompiuto della scienza e che sarebbero serviti anni di studio e riflessioni per chiarire definitivamente la questione.     

Bohm, comunque, non era d’accordo con Bohr quando affermava che le particelle non esistevano nel momento in cui non venivano osservate, ma aveva accettato l’idea che tra la fisica e la coscienza ci dovesse essere un nesso e non si dava pace nel pensare come inquadrare il mondo subatomico in una teoria complessiva che spiegasse ogni osservazione. Bohr aveva ammonito che nel subatomico bisognerebbe abbandonare il modo classico di pensare e rimanere aperti a qualunque possibilità logica.

 

Estratto dal "IL MONDO ILLUSORIO", edito Cinquemarzo

martedì 13 maggio 2025

Socrate: come dialogare efficacemente

  

 

"Socrate supera il fondatore del Cristianesimo nella sua capacità di essere serio con allegria e nel possedere quella saggezza piena di malizia che costituisce lo stato più elevato dell'anima umana." (F. Nietzsche, Umano troppo umano)

C'è una differenza fondamentale tra dibattito e dialogo. Si discute con un avversario, si dialoga con un altro ricercatore. I dibattiti sono intrinsecamente antagonistici, mentre i dialoghi sono sforzi collaborativi. Da giovani si fanno più dibattiti, da persone mature ci si impegna con i dialoghi.

Cercare la verità è la prima regola da seguire se vogliamo instaurare un dialogo socratico. Socrate usa rispettivamente i termini dialettica ed eristico. "Eristico" di solito non era inteso come un complimento nell'antichità. La parola deriva dal greco eris, che significa conflitto, discordia, e quindi ovviamente qualcosa che non favorisce una ricerca congiunta e amichevole della verità.

Socrate stesso spiega: "I giovani, come avrai notato, quando sentono il sapore in bocca per la prima volta, discutono per divertimento e contraddicono e confutano sempre gli altri imitando chi li confuta. ... Ma quando un uomo comincia a invecchiare, non sarà più colpevole di tale follia; imiterà il dialettico che cerca la verità, e non l'eristico, che contraddice per divertimento; e la maggiore moderazione del suo carattere aumenterà invece di diminuire l'onore della ricerca." (Repubblica, 539 d.C.)

La seconda regola prevede che il dialogante si preoccupi del suo interlocutore, non solo di ciò che sta dicendo. La maggior parte dei dialoghi platonici non ha il tipo di titolo che ci si potrebbe aspettare. Mentre lo stoico Seneca, ad esempio, scrisse libri con titoli come "Dell'ira" o "Della brevità della vita", Platone scrisse Carmide, Critone, Eutifrone, Gorgia, Fedro e così via. In altre parole, usò nomi di persone, non etichette per gli argomenti.

Questo perché la preoccupazione principale di Socrate era il tipo di ricerca della verità che avrebbe portato al miglioramento dell'umanità, a partire da sé stesso e dai suoi interlocutori. La sua indagine sulle proposizioni è sempre al servizio dell'esame degli individui e di come conducono la loro vita seguendo (o meno) i principi che affermano di rispettare. Questo è molto diverso da gran parte della filosofia moderna, che si concentra su argomenti astratti e impersonali, senza riguardo (presumibilmente) a chi sostiene le argomentazioni.

Al contrario, la filosofia antica, e in particolare quella socratica, era intesa come una sorta di terapia per l'anima. Ciò che pensiamo di argomenti come il coraggio, la giustizia, la pietà e così via è un riflesso della nostra visione generale del mondo. A sua volta, la nostra visione del mondo guida le nostre azioni, quindi ciò che pensiamo è importante perché riflette e plasma chi siamo e cosa facciamo.

La terza regola consiste nel dare priorità alla ragione. Sebbene a volte Socrate possa sembrare che stia discutendo con i suoi interlocutori, in realtà li mette nella posizione di discutere con sé stessi. Socrate presuppone un punto di partenza che sia gradito alla persona con cui sta parlando e poi esplora le conseguenze di tale punto di partenza. Lo fa con un occhio di riguardo alle possibili incongruenze, in modo da poter trarre insegnamento da qualsiasi problema emerga nel processo.

L'identità della persona e il suo status – ricco o povero, famoso o sconosciuto – semplicemente non hanno importanza. È solo la logica interna di ciò che dicono ad essere in questione. Ecco perché Socrate è sempre cortese: non vede l'altro come un nemico, ma come un compagno di viaggio.

La quarta regola prevede che tu sia onesto. Uno degli ostacoli alla buona dialettica si verifica quando le persone hanno paura o sono reticenti a dire ciò che pensano veramente, per paura di offendere gli altri, ad esempio, o di apparire stupide. Ricorda che l'obiettivo finale è terapeutico: la cura della psiche. Non dire ciò che si pensa veramente ostacola e rallenta la cura, sarebbe come mentire al proprio medico o terapeuta.

È interessante notare, tuttavia, che questo requisito di sincerità non si applica al socratico interrogante stesso. Per svolgere bene il suo lavoro, a volte deve fingere di condividere un presupposto o un'argomentazione con cui in realtà non è d'accordo, per chiarire tale presupposto o argomentazione ed esporla alla luce dell'indagine razionale.

La quanta regola vuole che si applichi il principio del testimone unico. Oggigiorno si sente spesso dire qualcosa del tipo "tutti sanno che...". Beh, a quanto pare questo era un problema anche ai tempi di Socrate. Argomentare in questo modo, secondo l'opinione della maggioranza, è una nota fallacia logica informale, nota come vox populi. La conversazione avviene tra te e il tuo interlocutore. Non importa quante e come le persone esterne al dialogo pensino sull’argomento. Ciò che conta è ciò che pensano le persone coinvolte nella conversazione.

La sesta regola invita a praticare il principio di carità. L'idea è di rappresentare ciò che l'altro sta dicendo nel miglior modo possibile, anche al punto di aiutare l'interlocutore a presentare una tesi migliore di quella iniziale. Questo è esattamente l'opposto di un'altra fallacia logica informale, lo "spauracchio". In quest'ultimo caso, si attacca una caricatura della posizione dell'altro, una caricatura che distorce e semplifica eccessivamente le cose in modo da poter prevalere più facilmente.

Lo "spauracchio" è ciò che fanno avvocati e oratori, usarlo non favorisce il discorso dialettico. È distruttivo, non costruttivo. 

L’ultima regola ti dice di non offendere. Viviamo in un mondo in cui tutti sembrano offendersi per qualsiasi cosa. E l'offesa non favorisce il dialogo e la comprensione, perché le persone adottano immediatamente un atteggiamento difensivo. Ancora una volta, niente di nuovo sotto il sole. Dopotutto, Socrate fu condannato a morte perché portato in tribunale da persone, in particolare dal famigerato Anito, che si erano offese per quell'attività, definendola il "tafano" di Atene.

Se non vogliamo offendere, dobbiamo formulare le cose con attenzione, consapevoli che alcune persone considerano certe opinioni parte integrante della propria identità, il che significa che prenderanno qualsiasi critica a tale opinione come un attacco personale. Si pensi a casi come la questione delle vaccinazioni, o il cambiamento climatico.

È, ovviamente, altrettanto importante non offendere noi stessi. Se leggete i dialoghi socratici, noterete che Socrate è estremamente cortese con i suoi interlocutori, anche quando diventano offensivi. Ecco perché è un modello così importante per noi, due millenni e mezzo dopo.

Detto questo, ci sono casi in cui Socrate diventa palesemente sarcastico, e alcuni in cui usa parole di disprezzo davvero forti. Sta forse commettendo un errore, come farebbe qualsiasi essere umano imperfetto?

Non necessariamente. Tutti questi casi finiscono per riguardare persone che sono allo stesso tempo potenti e ridicolmente piene di sé. In casi come questi, immagino che il tafano abbia pensato solo di mordere e sgonfiarsi, in modo che gli altri non si lasciassero intimidire dai bulli, intellettualmente o meno capaci.

 

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