
Racconto
scritto da ANTONIO CAMPANILE
Caracollante.
Così ti vedo sempre, quando vaghi, quasi spaesato, per Mola. Ogni volta che ti
scorgo il mio sguardo viene calamitato dalla tua persona.
Eppure
non hai nulla di interessante. Sei alto meno di un metro e mezzo. Non hai un
look. I tuoi abiti sono sdruciti e sovradimensionati.
Persino
la coppola è più grande della tua testa. Fai fatica a camminare. Allarghi le
braccia ad ogni passo, per bilanciare l’equilibrio instabile delle tue gambe
arcuate. Il tuo sguardo è sempre sofferente.
Mai
una volta che ti abbia visto con un’espressione diversa da quella che ti
corruga il volto dalla A alla Zeta.
Solo,
sempre solo. Anche quando sei sulla piazzetta antistante casa, quando trovi
qualche minuto per sederti sulla panchina, non c’è mai nessuno che ti rivolga
parola.
Soltanto
per qualche giorno ti ho visto con un quadrupede meticcio. Solo con un
cane.
Mi
chiedo in continuazione quali pensieri passino per la tua testa, quali immagini
aleggino nel tuo universo privato. Ma sbaglio a fare congetture. La risposta è
semplice.
Pensi
alla campagna. Sempre. Pensi alla vita di cui sei orfano a causa delle leggi
del tempo. Era dura, lo sai, quella vita. Ma era tutto quanto dava senso alla
tua esistenza.
Ti
piaceva alzarti molto prima dell’alba. Preparavi alacremente le cose da
mangiare nella pausa di mezzogiorno: pane, pomodoro e qualche frutto.
Tiravi
su acqua fresca dal pozzo e lo mettevi nel cicinato. Poi ti avviavi. A piedi
oppure, quando eri fortunato, su un traino del padrone di turno.
Eri
un lavoratore perfetto. Silenzioso e solerte.
Quando
arrivavi in campagna il tuo umore mutava di colpo.
Ti
sentivi in simbiosi con la terra, che sapevi aver bisogno delle tue mani come
la creta per un vasaio.
“Tutto
viene dalla terra e tutto va alla terra”.
Era
il tuo motto speciale, una frase tutta tua, anche se concepita in dialetto, che
ti era sgorgata spontanea da quella fronte che di solito tracimava solo sudore.
Adesso
che vai per il paese, ti senti un alieno. Il mondo attuale ti pare un pianeta
completamente nuovo.
Odii
le macchine, le moto e tutto quanto si muova senza un animale che lo spinga. Ma
la cosa che più non ti va giù è che questo pazzo mondo ha un gusto maniacale
per lo sperpero.
Osservi
persone e persone che non fanno altro che comprare e gettare. Ti guasti la
digestione quando vedi passare quei gran camion pieni di spazzatura, i mulini a
vento contemporanei.
Pensi
allora a quando eri giovane. In paese non esisteva la nettezza urbana. Tutto
veniva dalla terra e tutto andava alla terra.
Il
primo spazzino, che serviva Mola, comparve nel dopoguerra, quando cominciasti
ad avvertire i primi refoli del cambiamento. Fino alle tempeste di oggi.
A
parte un viaggio in bus a Roma, con i confratelli - che ti lasciò allibito -
non hai mai varcato i confini di Mola.
Ogni
tanto, soprattutto d’estate, vedi gente forestiera per strada.
E
immagini le terre fantastiche dove essi vivono. Terre verdi, dove non manca mai
l’acqua.
Una
volta, l’estate scorsa, ti è capitato un episodio che ti torna spesso alla
memoria.
Faceva
un gran caldo, era un giorno di primo agosto, verso mezzogiorno. Ti eri
sospinto fin verso il mare, dalle parti del vecchio ospedale.
Ti
eri fermato alla fontana, quella vicino l’edicola, per bere un po’
d’acqua.
Stavi
accingendoti a compiere quei movimenti, bradipici e rituali, che ti avrebbero
permesso di sorseggiare con piacere quel liquido naturale e miracoloso.
Non
ti accorgesti della macchina sportiva che si stava accostando alla
fontana.
Solo
quando il solito rumore rombante ti fu vicino vedesti scendere due giovani
prestanti. Il loro accento non lasciava dubbi: erano forestieri.
Ti
si rivolsero con fare deciso, non avvertendosi che tu stavi già facendoti da
parte. Non avevi fretta. Il tuo tempo è lo stesso della natura, lento e accomodante.
«Ciao
terùn!», ti aveva detto uno di loro, avvicinandosi al rubinetto.
Li
lasciasti bere e li vedesti andar via, veloci.
Fu
allora che, finalmente, togliendoti il berretto, ti avvicinasti alla fontana e
cominciasti a bere. Poi, sollevandoti con lentezza, ti venne di guardare in
direzione della macchina appena partita. Pensavi a quello che ti aveva detto il
conducente.
Il
tuo italiano stentato non ti impedì di comprendere che si trattava di una
parola che aveva a che fare con la terra, la tua amata terra.
Fu
in quel momento che le tue labbra abbozzarono, per la prima volta, qualcosa che
assomigliava ad un sorriso.