Perdere la fiducia nel prossimo è una malattia mortale.
Si bruciano i germogli della speranza, si chiudono gli occhi dell’ottimismo, si stabilisce un calmo e sterile buio interiore.
Ci si sente soli muovendosi tra la folla.
Brevi frasi fatte con le stesse parole, ripetono esperienze vuote di entusiasmo, spente di passione e prive di sentimento; si muore rimanendo nel corpo.
La lenta progressione della malattia è silenziosa, si cela dietro gli steccati seriosi del lavoro, degli sfortunati eventi di vita che producono menomazioni fisiche o psicologiche.
Il bisogno di vivere insieme e di legarci con i sentimenti in una comunione che va oltre la nostra ragione, trapela dalle abitudini e dalle tendenze comportamentali.
Vogliamo inconsapevolmente stare insieme, come la terra che ci fa roteare con sé e contemporaneamente intorno al sole, ci porta in giro per l’universo.
La forza di gravità agisce come una potente calamita, costringendoci a rimanere attaccati alla superficie e imitando così, la forza dell’amore che lega le anime.
Solo per questo motivo capisco perché si inumidiscono gli occhi al più piccolo gesto di tenerezza; capisco da dove vengono tutte quelle emozioni che la musica, la poesia e l’arte tutta, inducono.
Capisco, anche, perché darei tutto me stesso a chi chiede solo un abbraccio.
Il genere umano ha avuto un grande dono che, per la sua stessa grandezza, appare invisibile; si tratta della capacità di emozionarsi.
Non emozionarsi significa portar con sé una malattia mortale.
No, non intendo la classica malattia che conduce alla morte, ma a quella che va ben oltre.
La morte, almeno per i Cristiani, è un varco di
frontiera tra la terra e il Paradiso; un passo necessario ma comunque
transitorio, mentre la morte delle emozioni conduce a uno stallo esistenziale
perenne.
Uno stimato scrittore (Paul Auster) che porta in sé alcune cicatrici di questa malattia, scrive quanto segue:
Credo nonostante tutto che ogni persona sia sola tutto il tempo. Si vive soli. Gli altri ci stanno intorno, ma si vive soli. Ognuno è come imprigionato nella sua testa e tuttavia noi siamo quello che siamo solo grazie agli altri. Gli altri “abitano” noi. Per “altri” si deve intendere la cultura, la famiglia, gli amici. A volte possiamo cogliere il mistero dell’altro; penetrarlo è talmente raro! È soprattutto l’amore a permettere un incontro di questo genere. Circa un anno fa, ho ritrovato un vecchio quaderno dei tempi in cui ero studente. Lì prendevo appunti, fermavo delle idee. Una citazione mi ha particolarmente impressionato: -Il mondo è nella mia testa. Il mio corpo è nel mondo-. Avevo diciannove anni e questa continua a essere la mia filosofia.
Gli altri “abitano” noi, se siamo in grado di accoglierli, se la malattia non ha murato gli ingressi.
Tutto ciò che l’uomo scopre, è sempre un passo dopo il precedente. Il passo successivo non si sa dove ci porta, però, se mosso dal bene, sicuramente quel luogo sarà migliore di quello in cui viviamo oggi.
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