"TI VOGLIO BENE"
Una breve frase “attiva” ma con un senso implicito di “passività”.
Il “volere” è una manifestazione di un moto interiore che mira a richiamare l’oggetto del desiderio verso sé stessi; come se si trattasse di una forza incontrollabile rivolta verso l’esterno.
Per questo motivo, il senso di “attivo” si desume dal porre in primo piano il soggetto del volere per impegnarlo nel "lavoro" dell'amore.
Dall’altra parte, la passività discende dal sottostare mansueto alla forza interiore con una benevola, accomodante dichiarazione di incapacità a sottrarsi.
Il volere, in questo caso, è anche una dichiarazione intrisa della promessa ad agire immediatamente e che attende anche il più piccolo segnale di accettazione per far partire ogni successiva azione.
Nel rilevare il segnale di risposta, tutti i sensi si adoperano per questa missione.
Il tono di voce calante, il silenzio incipiente e la dolce pausa d’attesa, dove il tatto, l’olfatto e la vista si allenano come calciatori senza pallone.
Il destinatario è un attore spinto nella scena; appare quasi sempre disarmato e incapace ad una reazione razionale.
Succede, quasi sempre che ubbidisca al silenzio proposto e che assecondi una tacita forma di gratitudine, prima di far risuonare il classico “anch’io”.
Ovviamente, tutto diventa imbarazzante qualora non ci fosse affinità.
Dichiarare il “voler bene” è un’apertura totale verso l’amato; è accoglierlo nella parte indifesa del cuore; è spendere un capitale accumulato dalla nascita.
Non si può annunciarlo in mondo leggero, come chiedere un bicchiere d’acqua.
Coloro che credono in un Dio, si sentono obbligati a coinvolgerlo come testimone delle loro pure intenzioni.
Trascinando questo peso, conclamare il bene per una persona è arduo per chiunque che ne sia consapevole.
Anche la voce partecipa alla cerimonia sorreggendo a stento le tre parole.
Le emozioni sono fuochi d’artificio nella notte: bellissimi, spettacolari, colorati ma durano nel tempo del loro compiersi.
I giovani, forse inconsapevolmente, sentono l’importanza del sentimento denunciato dalle tre parole e lo hanno accorciato in un anonimo TVB.
Continuo a sorprendermi, restio ad abituarmi, nel sentire appellare i fidanzatini con l’abbreviativo “AMO’” come troncamento della parola “AMORE”.
Chissà quante volte ho sentito frasi del genere: “Amò’, mi dai una sigaretta?” oppure “Dove andiamo, amò’?”.
In queste occasioni, rimango impietrito nella riflessione che mi dice:
“Sei diventato vecchio!”
“Sei un romantico in estinzione!”.
Per fortuna, questo stato di stallo interiore dura quanto un temporale d’estate, perché mi ripeto che per i sentimenti veri non esiste né il tempo né la moda.
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