lunedì 24 ottobre 2016

L'equilibrista (di Giovanna Sgherza)


 
Racconto scritto da Giovanna Sgherza.

Non avevo pianto.

Nulla. Nemmeno una lacrima. 

Solo tanto sgomento quando il medico di guardia dell’ospedale mi aveva comunicato la morte di mio fratello.

Lo avrei odiato, se non fossi stato un medico anche io e quindi quasi abituato a convivere con la tragedia della morte.

Ma quando ci si trova “dall’altra parte” è completamente diverso: non vuoi crederci e ti interroghi se quell’uomo che indossa la divisa verde, con ancora la mascherina attaccata al collo, sia soltanto un folle e accanito incubo della tua vita o un guerriero che ha lottato infelicemente contro i mulini a vento..

Avevo guardato il collega e rivolto subito tristemente gli occhi verso l’assistente che mi avrebbe accompagnato a fare il riconoscimento ufficiale della salma.


Il vero dolore è arrivato dopo, quando ho dovuto raccogliere i suoi effetti personali, i suoi indumenti e i suoi libri e metterli via per cercare di cancellare la sua presenza in casa mia.

Ingenuità infantile la mia, o forse tentativo inconscio di nascondere e aggirare la dura verità….

Jenny mi era stata vicina in quei giorni terribili, pur sapendo che avevo bisogno di stare solo con me stesso e di metabolizzare il mio dolore.

Non avevamo quasi mai gli stessi turni in ospedale e, la mia attività di ricerca universitaria mi impegnava spesso nei pomeriggi quando lei invece non lavorava.

A volte compariva radiosa nel mio studio cercando di distrarmi e farmi sorridere, ma puntualmente si sedeva accanto a me e con la sua innata curiosità mi rivolgeva domande sulle mie ricerche, arricciando il naso quando le immagini erano disgustose.

Poi, quando il tramonto si presentava alla piccola finestra del mio studio, rimettevo in ordine i fogli che avevo sparso sulla mia scrivania, controllavo diligentemente che non ci fossero ancora download in corso sul mio computer e, sotto lo sguardo attento e sereno di Jenny indossavo la giacca per uscire e dedicarmi finalmente a lei.

Spesso dopo una breve passeggiata cenavamo fuori, in qualche trattoria lungo il fiume; ma nelle serate più fredde preferivamo rientrare in casa per starcene al calduccio dopo aver cucinato qualcosa insieme.

La mia vita scorreva così: un po’ noiosa, ripetitiva, senza slanci e senza sorrisi, come se qualcosa, dopo la morte di mio fratello, mi avesse trasformato in un automa con un cuore di diodi e metallo privo di qualsiasi sentimento.

Mi rendevo perfettamente conto che la mia resilienza poteva raggiungere a malapena il 10-15% di quanto un uomo possa possedere, e cercavo perciò di reagire positivamente solo nell’ambito lavorativo e professionale partecipando attivamente e proficuamente ai diversi ed interessanti convegni organizzati dalla fondazione di ricerca oncologica di cui ero, da diversi anni, consigliere ricercatore.

Forse un modo per riscattarmi e per pensare meno alla perdita di mio fratello? O forse un modo come un altro per evitare di affrontare i problemi quotidiani e la vita di coppia ormai stanca? 

In ogni caso stare lontani per qualche giorno ci dava beneficio, perché al mio ritorno il nostro abbracciarci e respirarci era più intenso e sentito rispetto a quando ero partito.

Una notte ho fatto un sogno molto strano ma significativo.

Ho sognato mio fratello.

Non mi era mai capitato dal giorno dell’incidente ed ormai era trascorso quasi un anno.

Indossava giacca e pantaloni di colore nero, bellissimo ed elegante nella sua camicia bianca ma era scalzo e camminava su un cavo di metallo tra due dirupi non vicini tenendosi in equilibrio con un’asta flessibile.
Sotto di lui un baratro scuro e indecifrabile.
 
Io ero spaventatissimo, lo guardavo dal bordo della montagna e gli supplicavo di tornare indietro al sicuro, ma lui sorridendo continuava il suo percorso pericolosissimo con una tranquillità angelica che sembrava dirmi: “ non aver paura di camminare sul filo della vita, io sono tranquillo… Vedi? 

Tu invece sei fermo lì che mi aspetti immobile e non hai il coraggio di cambiare e provare a vivere le tue emozioni….”

Mi svegliai di soprassalto, un po’ impaurito e un po’ meravigliato.

Jenny quella notte non era accanto a me perché aveva dormito a casa di una sua amica gravemente ammalata per restarle vicino.

Allora, sentendomi solo come non mai, mi alzai e mi avvicinai alla finestra da cui entrava la flebile luce della notte.

Istintivamente spostai la tenda e guardai fuori.

Un gatto bianco e nero era lì, di fronte a me, in perfetto equilibrio sul bordo della recinzione metallica del giardino e mi fissava ammutolito con i suoi occhi giallo-grano senza muoversi di un solo centimetro.

Non so quanto durò quello sguardo reciproco…certamente mi attraversò senza che me ne accorgessi.

Dopo, quando il gatto mi vide sorridere rincuorato, con un balzo lieve ed elegante fuggì via e in pochi attimi raggiunse il muretto dell’isolato adiacente al mio, scomparendo dalla mia vista.

Indossai il primo pullover che trovai in camera, presi le chiavi e uscii di corsa facendo le scale di corsa. 

Il gatto probabilmente aveva attraversato il cortile adiacente  e poi era tornato sulla strada dove c’era più luce ed era raggomitolato in un cantuccio accanto al contenitore della raccolta differenziata. 

Mi avvicinai con cautela e lo accarezzai teneramente…

Soltanto allora sono riuscito a piangere.

E in quel momento avrei voluto abbracciare mio fratello  e parlargli.

Avevo ritrovato  l’amico a cui parlare e raccontare le mie paure e i miei progetti, con cui guardare le partite in tv, a cui dedicare un pomeriggio fuori dagli schemi in giro con la sua moto, a cui raccontare l’amore per la mia donna…

La sua assenza era rientrata nella mia vita diventando presenza costante  e silente che mi fortificava in ogni momento della giornata e della mia esistenza, anche perché, il figlio che dopo quella notte io e Jenny abbiamo fortemente voluto, ora porta il suo nome.

martedì 6 settembre 2016

La buona scuola sta per iniziare.


Sono trascorsi soltanto vent’anni ma ho l’impressione che ne siano passati cento.
Avevo pochi anni alle spalle della mia laurea, quando mi presentai davanti alla figura istituzionale del Preside di una scuola.
Rigido, attento alle parole, lentamente pronunciate, mi preparavo alla missione di insegnante.
La mia giovane figura inspirava poca fiducia al composto capo d’istituto. 
Le mie capacità, o meglio, la mia preparazione poteva garantire l’adempimento a cui ero chiamato?   
Ero un giovane ingegnere con pochissima esperienza scolastica e con il grande fascino di intraprendere la missione di insegnamento.
Mentre il preside mi parlava, nella mia mente, come onde, si riversavano quelle emozioni che da studente immaginavo e che allora sperimentavo. 
Dovevo però porre attenzione!
Sfidando quel turbinio emotivo, ascoltavo:
“Lei, professore, avrà una classe quinta da condurre agli esami! 
Siamo certi di potercela fare?”
“Certamente, preside. Farò del mio meglio!”, rispettosamente, mi affrettai a rispondere.
Questa scena, ancor limpida nella mia mente, ora stride con una realtà molto lontana da quella che avrei potuto presumere.
Il preside, oggi, è un burocrate! 
La didattica non ha più un attento osservatore.
Il preside oggi è un “Dirigente”, un “Manager”.
I professori sono lavoratori da gestire e ottimizzare. 
Gli alunni sono merce da valorizzare. 
Le attività o POF (piano dell’offerta Formativa) sono pretesti pubblicitari per attirare nuove iscrizioni e di conseguenze rimpinguare il budget economico e allargare lo staff degli operatori. 
La scuola si sta trasformando in un soggetto a cui applicare le tecniche di marketing.
Neologismi si coniano per confondere insegnanti asettici e sempre vessati da scarsa considerazione.
Che bella la parola “Bonus”! Peccato, poiché non ho ancora capito a cosa si riferisce!
Forse è un meccanismo che premia i più volenterosi? 
Ma per far che? Come si stabilisce la buona scuola o il buon insegnamento se nessuno entra in classe con l’insegnante, per capire come spiega o in che modo trascina i suoi studenti in uno studio piacevole e in linea con i riferimenti educativi?
Un tempo contava la storia di un insegnante, la continuità del suo insegnamento, la celebrazione dei risultati.
Oggi si contano quanti alunni si evita di bocciare!
Oggi si inventano pratiche per giustificare esigenze di alunni riottosi e assurde pretese di genitori.
Probabilmente, mi verrà un complesso di inferiorità se mi renderò responsabile di una bocciatura.
Se gli alunni vengono bocciati cambiano scuola! E questo, è un dramma e un danno!!
Un danno più grave di quello che procurerei se non facessi nulla in classe!
Concludo manifestando un senso di colpa.
Può succedere che per aver contribuito a bocciare qualche alunno, la scuola perda i numeri sufficienti per disporre di un adeguato numero di lavoratori in segreteria!!
Il rischio di questa sciagura potete immaginarlo!

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