Non
capita spesso di avere il privilegio di cogliere una situazione che per diversi
motivi ti appare invitante e degna di essere vissuta in pieno.
Nell’immaginarsi
una prospettiva di uno stage in Inghilterra tutto spesato e che centri la tua
passione di fondo, è facile che ci si proietti nella propria mente un film
colorato di emozioni e con protagonisti felici.
Purtroppo,
la realtà emerge lentamente e scioglie inesorabilmente l’illusione.
Il lungo
viaggio a Londra si apre con la corsa in un taxi londinese il cui conducente smorza
l’euforia di girare per le strade inglesi con un’evidente indisponibilità a
parlare.
In
compagnia di una collega, giungo a destinazione.
L’area che ci accoglie è
magnifica!
Un’estesa campagna verde popolata di alberi secolari e vispi
scoiattoli, ben curata e immersa in un irreale silenzio, circonda piccoli
edifici apparentemente ben disposti sulla panoramica.
L’aria frizzantina della
prima serata inglese attraversa i polmoni per fare una sua prima
metabolizzazione.
Pronto
a sfoderare il mio imperfetto inglese, mi dirigo verso la reception.
Una bionda
e gentile signora si scontra con le mie prime parole inglesi.
Dalla sua
gentilezza, più che dagli indistinguibili suoni di comunicazione, capisco che
erano in corso i preparativi per l’assegnazione della stanza e pertanto mi
invitava ad attendere.
Questa
prima attesa mi offre l’occasione di incrociare alcuni miei ragazzi, già ospiti
da dieci giorni nella struttura.
Il loro caldo saluto non riesce a nascondere qualche
perplessità a riguardo della qualità del soggiorno nel
college e che di lì a poco, ne sarei venuto a conoscenza.
Tra
l’impaccio di muoversi in un nuovo ambiente e la grigia aria con cui i colleghi
si presentano, comincio a pensare che forse l’imminente permanenza non potesse
essere quella immaginata.
Il
mio arrivo è concomitante con l’apertura della mensa per il pasto serale. Vedo
accalcarsi ragazzi e professori con vassoi vuoti tra le mani e disposti in una
fila da stadio davanti ad una porta scorrevole ancora chiusa.
Un
trambusto di voci e qualche urlo, permette di diffondere la notizia che, per
motivi tecnici, la cucina aprirà con una mezz’ora di ritardo.
Uno dei miei
colleghi mi invita a mettermi in fila per evitare la lunga attesa con il
problema successivo di non trovare posto a sedere nella sala gremita.
Non
so dirvi se il sentimento che provavo fosse di umiliazione o di rassegnata
remissione ad adeguarsi alla nuova condizione in essere.
Nella mia megalomania languivo
nel vedermi professore e ingegnere in coda davanti ad una porta chiusa,
richiamando alla memoria scene viste in tv e per ben altri motivi.
L’attesa
in una fila disordinata viene scossa da un coro di voci giubilanti; si annuncia
così l’apertura della cucina.
Un ragazzo in maglia color arancio funge da rallentatore
di fila e scagliona l’ingresso al banco di distribuzione a piccoli gruppi.
I
primi commensali, entrando, allungano le braccia per affondare le mani in
vasche piene di posate appena lavate. La processione si snoda davanti a
cucinieri impegnati a distribuire cibo nella misura concordata con la
direzione.
Il lento procedere è contornato da commenti in tutti i dialetti del
meridione d’Italia.
Ci
si dimentica di essere in Inghilterra!
Il
menù è fisso nel tipo, nella forma e nella quantità.
Le espressioni di scelta si
fanno a gesti o con brevissime parole; in barba alla lingua inglese!
Scoprirò
successivamente che lo staff di cucina è indiano e che questi conoscono solo
poche parole inglesi.
Nemmeno
in cucina si può far pratica della lingua!
Alcuni
particolari mi fanno sorridere mentre consumo il pasto.
Mentre
mangiavo ripetevo nella mente che forse qui l’acqua deve essere un bene molto
prezioso poiché ci viene data in piccoli bicchieri.
Bevevo poco e lentamente
per evitare di dovermi alzare continuamente a riempire il bicchiere.
Per
consolarmi, una collega mi ricordava che non è consigliabile bere acqua quando
si mangia, considerando che il cibo contiene già la quantità necessaria.
Osservante
opportunista del consiglio, termino il mio pasto e occhio sulla borsa
abbandonata vicino al banco di mensa, rimetto al suo posto il vassoio dopo aver
distribuito resti alimentari e vettovaglie sporche nei rispettivi contenitori.
Non è consigliato tardare nel terminare il consumo del pasto poiché lo spazio
in mensa è indispensabile per consentire a tutti di mangiare nel tempo di
apertura della mensa.
Rimanere seduti, colloquiando piacevolmente, rappresenta
una mancanza di rispetto verso coloro che si muovono con il vassoio in
equilibrio precario, in cerca di un posto dove appoggiarlo e iniziare finalmente
il pasto.
La
mia prima serata di permanenza in Inghilterra termina con un conciliabolo a
sfondo pessimistico con i colleghi già ospiti che raccontano delle loro
peripezie vissute nei primi dieci giorni.
Nei
momenti di introversione, riflettendo sulla programmazione delle attività,
attribuivo allo zampino della sfortuna la causa per cui l’inizio dell’avventura
coincidesse di venerdì e in un weekend programmato con visite guidate e pranzo
al sacco composto da due tramezzini, un succo di frutta e un cioccolatino.
La
pratica della lingua inglese deve ancora attendere!
Siamo
nel primo appuntamento con le escursioni, le aspettative, a dispetto delle
recenti disillusioni, non vogliono sapere di cautelarsi e di predisporsi a
eventuali ridimensionamenti.
La
visita programmata a Canterbury è piacevole per la bellezza del luogo in
oggetto. Quell’ora di godimento la paghiamo con 4/5 ore di pullman in andata e
ritorno e con un conto salato al ristorante italiano Strada, dove per una
caprese e una bottiglia d’acqua abbiamo azzerato le risorse economiche elargiteci
alla partenza (8 pounds
in buoni-pasto), spendendo 12
pounds ognuno.
La
domenica successiva riserva ancora una sorpresa; sono costretto a rimanere nel
college perché uno studente si sente male e non può partecipare alla gita con
il gruppo. Come un martire che si immola per un alto ideale, così io sacrifico
i miei presunti piaceri per l’escursione mancata.
In
assenza di studenti, la deprecata mensa rimane chiusa ed elemosinando un
tramezzino in una cucina vuota, si attende il ritorno del gruppo per la cena
serale.
Dovrò
attendere il giorno successivo per scoprire che alcuni colleghi avevano denunciato
il pericolo di cancro associato alla bibita dal gusto di pseudo limone
confezionata nel packet-lunch approntato per l’escursione.
Per
fortuna che, nonostante la sete indotta dal ruvido tramezzino, il gusto
indistinguibile al limone mi ha impedito di bere!
Governando
i sintomi della fame si riesce a trasformare la solita cena in un appuntamento
di piacere, addomesticando così, anche la noia della solita fila.
Finalmente
il primo lunedì giunge!
Si
riprende con le attività didattiche di cui anche il tutor accompagnatore deve
farsene carico riscontrando la puntualità delle lezioni a cui gli studenti sono
chiamati.
Senza
grande entusiasmo e con un’approssimata puntualità, gli studenti si approcciano
alle lezioni.
La gentilezza dei professori e la qualità delle loro tecniche di
insegnamento, servono poco a chi ha trascorso buona parte della notte a
socializzare con gli amici.
Sguardi
stanchi e intelligenze poco reattive tradiscono la preparazione
all’appuntamento con verifiche al limite della sufficienza. Succede quindi che
il teacher non nutri molta fiducia sull’esito positivo dell’esame finale.
Gli
studenti si giustificano perché non hanno tempo per studiare e quel poco che ne
ricavano lo sottraggono ai momenti ricreativi.
Durante
le ore in cui i ragazzi sono impegnati nelle lezioni, i professori
accompagnatori trovano l’occasione per rispolverare il povero inglese
partecipando a un corso a loro riservato.
Devo ammettere che ho rivissuto l’esperienza
di tempi andati, quando da alunno sedevo di fronte alla cattedra e legato al
suo sguardo, coglievo il più piccolo segno di approvazione per procedere con le
risposte alle sue domande.
Il
piacere del colloquiare con lo stimolo dell’interrogazione consente di
dimenticare il contesto e di vestire in quelle poche ore i panni dello studente
nel compito più gravoso della sua età.
Tra
qualche errore grammaticale e improvvisi vuoti di memoria, si alternano momenti
di divertente dialogo nella lingua straniera.
Il colloquio è spesso contaminato
da qualche parola italiana sfuggita inconsapevolmente per colmare le pause
terrificanti, rivelatrici di un ristretto vocabolario.
I
giorni si alternano in una continuità che normalizza anche le contraddizioni e
che infonde un crescente senso di comunione.
Con il passar del tempo, la
forzata convivenza favorisce relazioni interpersonali più profonde e permette
di rivedere studenti e colleghi in un’ottica diversa, meno formale, più
attenta.
Scopro
un’insospettabile sensibilità in colleghi dipinti fino allora con giudizi
colorati di grigio. Intravedo in loro timidezze sempre mascherate da
atteggiamenti decisi e a volte provocatori.
Si prende coscienza che quasi
sempre, specialmente nel modo del lavoro, ci si conosce molto superficialmente
e in alcuni casi, non ci si conosce affatto.
E’
mia convinzione l’idea che se fossero più frequenti i momenti di vita comune e
maggiori le opportunità di dialogo, le relazioni personali si consoliderebbero
in modo piacevole, l’organizzazione nel lavoro risulterebbe più armonica e la
società nel suo complesso acquisirebbe una forma per cui ogni individuo si
sentirebbe orgoglioso di appartenere.
La
permanenza nel college si consuma con ritmi consolidati e anche il ciclo
biologico sembra che si sia già adeguato alle nuove cadenze, considerando la
puntualità con cui sorgono gli stimoli di fame; soltanto pochi giorni prima era
impossibile accusare la fame alle dodici per il pranzo e alle diciotto per la
cena.
Le
novità che interrompono la sequenza ripetitiva degli eventi quotidiani, sono
legate alle escursioni programmate.
Nel
quinto giorno di permanenza è prevista la visita al museo di arte moderna, nel
cuore di Londra.
Una lunga passeggiata lungo il Tamigi consente alla comitiva
di immergersi nella vita londinese e ammirare la straordinaria grandezza della
metropoli.
Raccontarvi
ciò che ho visto in quel museo, potrebbe mettere a nudo la mia ignoranza nei
confronti dell’arte moderna.
Non sono riuscito a capire il significato o a
ricavare emozioni da strutture che ai miei occhi apparivano come legno lavorato
o metalli battuti o, addirittura, pasticci di colori fatti con pennelli maldestramente
mossi su superfici bianche.
Innervosito per la mia ignoranza e costretto dal
rispetto verso gli altri visitatori a non ridere davanti a quelle buffe
rappresentazioni d’arte, ho frettolosamente terminato la visita.
Fuori dal
museo ho notato il mio senso di disappunto condiviso da quasi tutti gli
studenti, i quali non vedevano il momento per staccarsi dal gruppo e celebrare
l’arte dello shopping, meno nobile ma sicuramente più ammiccante.
Una
mia collega appariva prigioniera della malattia del click fotografico; puntava
con nevrotica sequenza la sua macchina fotografica verso obiettivi suggeriti da
irrazionali sensazioni.
Sembrava che ella volesse racchiudere Londra con tutte
le sue caratteristiche in quel piccolo oggetto e di farne una catena aggiunta
al suo DNA.
Tra
sguardi intenti a scrutare ogni particolare interessante, il gruppo si muove a
fisarmonica seguendo due ragazzine inglesi indossanti vistose bluse di color
arancio che attribuisce loro il ruolo di mute guide turistiche.
Soltanto davanti ai
semafori il gruppo si ricompatta; qui si sentono chiaramente conversazioni in
italiano. Siamo a Londra e l’inglese viene richiamato soltanto dalla paura di
ricordare che fra qualche giorno è previsto l’esame finale.
Giunti
in Piccadilly Circus, il gruppo si scioglie, libero di girare per le
strade della città mentre i docenti accompagnatori, trovano l’opportunità per
spendere i loro soldi e acquistare oggetti da riportare in patria sottoforma di
“pensiero da Londra”.
La
lunga passeggiata per la famosa Regent Street, affollata di negozi dai nomi
altisonanti, non ci permette altro se non “vedere”; comprare è un verbo
probabilmente da utilizzare in un’altra vita.
Nelle vetrine si leggono numeri
con un’infinità di zeri per comporre prezzi fuori dalla portata dei semplici professori
che hanno in tasca i buoni-pasto.
Sfidando ogni logica e assecondando il gusto
di chiedere “How much does it cost?”, si entra in negozi dotati di eleganti
assistenti welcome, dove lo sfarzo e il lusso saturano l’aria che si respira.
La visita in questi posti è quasi sempre fugace; sintomo della convinzione inconsapevole
di perder tempo.
Il
lento passeggio cela un’inevitabile frustrazione a coloro che filosofeggiano sull’importanza
relativa del denaro nella vita.
Il tempo del rientro comunque arriva e tra la
vivace folla di pedoni che magicamente si blocca davanti a grandi semafori
rossi, affrettiamo i passi per confermare la puntualità dei professori.
Nel
tempo del ritorno al college, tra i sussulti del bus, si parla ancora dell’esame
imminente che i ragazzi hanno frettolosamente preparato e per il quale tutta la
compagnia “High fly with english” ha lavorato.
Potrei
disquisire in merito alle scelte programmatiche e organizzative del piano
operativo di questo stage, ma preferisco soffermarmi sugli aspetti positivi, certamente
più piacevoli rispetto alle dolenti disfunzioni.
Il
giorno programmato per l’esame finale che sanziona le competenze di livello
avanzato, giunge e, mediante opportune quanto efficaci simulazioni, lo staff
didattico della struttura impegna gli impauriti studenti nelle ultime prove
prima di guidarli nell’aula degli esaminatori.
Sorprendentemente,
smentendo ogni nera previsione, quasi tutti gli studenti superano l’esame e si
qualificano nel livello avanzato della lingua.
Il successo scioglie ogni riserva sulla qualità e quantità dell’impegno
profuso dal gruppo. Il weekend in arrivo riserverà loro soltanto divertimento
da consumare nelle ultime due escursioni previste.
La soddisfazione per
l’obiettivo centrato consente di dimenticare le peregrinazioni patite e migliora
il grado di sopportazione di eventuali disfunzioni della macchina organizzativa
del college.
Ormai il tempo di soggiorno in terra straniera volge al termine,
resta soltanto estrarre piacere dal weekend privo di oneri didattici e
programmato per le visite guidate.
Per
l’ultimo sabato l’organizzazione prevede l’escursione a Windosor, una ridente
radura turistica intorno al famoso castello della regina. Il gruppo, ordinato
in fila indiana, attraversa il check-in prima di poter girare liberamente
all’interno del castello.
Non
ancora ripresi dallo shock per il lusso e il consumismo di Regent Street, non
possiamo nascondere lo stupore per tanta fastosità celebrata negli appartamenti
dei reali.
Tuttora non riesco a giustificarmi perché tanta gente paga un
biglietto di circa 24 euro per assistere alla spropositata vita lussuosa di una
donna e pochi eletti, nati per essere reali d’Inghilterra.
Nell’immaginario
collettivo la regina rappresenta l’esempio vivente di come vorremmo vivere. La
regina richiama la vita mondana lussuosa, sempre riverita, gloriosa, potente, fiera
e con un posto sicuro nella storia.
Per
i ragazzi in gita, la regina si cerca sulle borse, penne e magliette da acquistare
come souvenir e portare a casa come prova della visita.
Il
rituale dell’escursione dell’ultimo giorno a Oxford, si ripete con gli stessi
tempi e le stesse motivazioni; ormai il pensiero di ognuno fugge verso
l’indomani: Il giorno della partenza!
Il
momento del consuntivo è sempre intriso di romantica nostalgia. Nonostante i
problemi incontrati, il cuore si impone sulla ragione e fa emergere
l’importanza dei valori umani per un periodo di vita trascorso insieme.
Sono
convinto che Dio abbia scelto la piccola Terra per costringere gli uomini a
stare insieme e conoscersi, così come è successo a quattro insegnanti e
trentuno studenti nel condividere l’esperienza di un PON.
Soltanto
la vita comune permette di riempire di significato il nome di una persona che
altrimenti rimarrebbe un concorrente anonimo con cui lottare per sopravvivere.
Grazie
a tutti i ragazzi e colleghi per le emozioni vissute!
Il
treno della vita ci ha stretto insieme nello stesso vagone.
Il
treno ha corso su una linea non sempre tranquilla, ma ogni scossone è servito per
rimanere sui binari e permetterci di scendere nella stazione successiva più
ricchi di noi stessi, poiché ciò che ognuno ha ricevuto dall’altro, non è
passato né attraverso le mani, né attraverso le parole.
Sono serviti semplici
sguardi, piccole attenzioni, spontanee movenze, per comunicare nel linguaggio
universale dell’amore e scambiarsi quella merce che forse non allunga la vita,
ma sicuramente l’allarga.
Grazie Luigi per il tuo puntuale resoconto. Sì, hai ragione se molti italiani imparassero davvero a confrontarsi con l'estero, con l'esterno, con l'estraneo alle proprie abitudini e cultura, di sicuro crescerebbe la nostra tolleranza e disponibilità al sacrificio individuale per una migliore vita collettiva. Personalmente viaggi da solo e mi pare di apprendere di più, anche se il ritorno in patria è sempre tragico, nonostante il tuo concreto ottimismo. Grazie! Renato
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