domenica 11 maggio 2014

La gita scolastica(2)

 

 
Le distanze diventano virtuali quando sono affidate alla consapevolezza del trascorrere del tempo. 

Il tempo trascorso in volo rapisce emozioni e consegna alla fantasia il compito di cercare spiegazioni.
Anche gli stimoli della fame rientrano tra i problemi di secondo ordine quando l’eccitazione per il nuovo conquista l’anima.

Il vivace atterraggio a Praga e la successiva attesa all’esterno dell’aeroporto ci offrono l’occasione per ambientarci al clima fresco con cui la capitale Ceca ci accoglie.

La permanenza ai bordi dell’aeroporto per più di un’ora ci consente anche di “godere” della disorganizzazione dell’agenzia di viaggio. 
Innumerevoli telefonate partono verso un numero estero letto su un programma accartocciato nelle mani condivise tra il cellulare e il bagaglio.
Dall’altro capo del telefono si alternano voci in lingua ceca e infine riconosco la mia amata lingua inglese. 

Nel dialogo che segue, le pochissime notizie disponibili impongono l’uso di monosillabi. 

Un laconico “OK” è l’elemento chiave per comprendere il compimento della missione. 
Intanto il tempo passava e più telefonate senza risposte partivano.

 La certezza finale giunse con un brevissimo SMS, giunto sul cellulare di uno dei miei studenti, che annunciava l’arrivo del bus nei successivi cinque minuti. 

La pronuncia in lingua spagnola del testo scritto in inglese, sorprendeva l’alunno, ormai abituato a studiare l’inglese dall’età della pubertà.
All’arrivo dell’agognato Bus, la comitiva partì per raggiungere l’albergo a  quattro stelle promesso.  

 Il breve viaggio nel carrozzone ci portò alla vista di una mega struttura di accoglienza. Il nome dell’albergo era “Olympik”. 
In esso era tutto smisurato, comprese le sorprese che ci attendevano.
La prima di queste era il clima freddo degli ospitanti, fatto di poche e necessarie parole utili alla pratica amministrativa per l’assegnazione delle stanze.
La seconda riguardava la sistemazione da “last minute” di studenti a gruppi di tre in stanze, trasformate in triple semplicemente aggiungendo letti negli spazi angusti di camere solitamente singole. 

Non importava se asciugamani e suppellettili vari erano adeguati al numero di ospiti per stanza.

Tutto questo poco importava a ragazzi vivaci che sperimentavo una vita diversa dal solito e soprattutto lontana dai propri genitori.



La terza sorpresa della serata riguardava la qualità del cibo serale.


Ovviamente non si trattava di cibo italiano!


Però qualcosa che potesse rispondere sommariamente alle esigenze alimentari di ragazzi affamati era possibile attendersi.


Salse condite da indecifrabili additivi, retrogusti di difficili individuazioni, carni di non individuabili animali erano esposte su un buffet preso d’assalto da innumerevoli ospiti.

Erano vietate giare piene d’acqua. 

La sete andava sedata tramite piccoli bicchieri riempiti con pendolari escursioni tra i banchi e verso distributori automatici a bottoni. 

Capitava che si formasse la fila d’attesa, poiché alcuni “furbi” riempivano più bicchieri per volta.


A causa del grande afflusso di ospiti e con lo scopo di liberare posti a sedere, era consuetudine che tra i banchi della mensa si aggirassero inservienti pronti a toglierti il piatto da sotto appena (per distrazione) fossero deposte le posate.

Con un falso sorriso questi camerieri giungevano improvvisamente come falchi e premettendo la parola “Finished?” attendevano il forzato consenso per l’asporto coatto del miserevole piatto sotto il tuo sguardo sorpreso.

Una delle scoperte fondamentali che si fecero subito, riguardò quella della presenza di un supermercato accanto all’albergo. 

La notizia si sparse subito e in meno che non si dica, tanti ragazzi si trasformarono in mosche intorno al cibo all’interno di quel punto di vendita. 

Si acquistava di tutto, dall’acqua alle patatine e tutto fatto in modo divertente praticando la matematica del cambio valuta.
Dopo cena, sazi ma non troppo, eccitati nella giusta dose, la comitiva si preparava alla escursione nella città di Kafka. La posizione decentrata dell’albergo imponeva l’uso della metropolitana, così, 45 persone strariparono verso il punto d’accesso più vicino denominato “Invalidovna“.
Per giungere in centro era una questione di minuti ma per ottenere un biglietto della metropolitana serviva almeno un’ora. 

Il punto metro era dotato di un distributore automatico di biglietti che accettava soltanto monete. 

Moltiplicando 45 persone per 3 monete (nel caso migliore, 2 da 50 kr e una da 10) si ottenevano 45 biglietti con 135 monete. 

In altre parole, serviva oltre un chilogrammo di metallo per far viaggiare 45 persone nella metropolitana di Praga.
Tra chiacchiere e spiritosaggini, infine, si riuscì a completare l’operazione di approvvigionamento dei biglietti e nell’arco di pochi minuti, fummo in una delle piazze più famose di Praga: “Václavské náměstí”.

(continua nel prossimo articolo)

Gita a Praga


LUIGI: ETT, ci sei? Sono appena tornato da Praga. Voglio raccontarti tutto.

ETT: La tua euforia mi sorprende!

Non avevi giurato di non partecipare a nessun altro viaggio di istruzione?

LUIGI: Credo proprio di essere incoerente sotto questo aspetto.
ETT: Invece sì!  Tutti sanno che in fondo al tuo animo insiste ancora l’amore per i tuoi ragazzi.

LUIGI: Sei gentile, Ett, a dirmi questo! Comunque, nella vita di ogni uomo esistono momenti in cui sorgono domande per le quali trovare risposte convincenti sembra impossibile.
Il conflitto tra la razionalità delle azioni da compiere e i sentimenti che queste muovono, induce a chiedersi perché esistiamo.
La nostra vita è fatta di regole. Esse sono le linee guida nei rapporti interpersonali e contemporaneamente portano con sé limitazioni all’espansione dell’anima. Dall’altra parte ci sono i sentimenti che sono riservati, intimi e bisognosi di un ossigeno difficilmente reperibile in gran quantità. Questa dualità ci conduce ad assumere maschere ad essere attori nel film dell’esistenza.
ETT: Intendi dire che voi umani avete paura ad esporvi. Temete di non essere veri scienziati, bravi tecnici e preparati professori, se si mostrano i sentimenti. Temete di apparire infantili, deboli e forse anche inconsistenti, se vi commuovete pubblicamente oppure se si usano sorrisi, carezze, abbracci. Insomma, tutto ciò che è sentimento deve essere tenuto dentro, da mostrare solo nell’intimità della propria famiglia o all’interno della ristretta cerchia di amici veri.

LUIGI: Sì, è proprio così!

La gita scolastica è proprio una delle occasioni in cui il formalismo dell’aula scolastica subisce scossoni.

I ragazzi provano, esitanti, a rompere la breccia della formalità mentre i docenti accusano i colpi e lentamente la corazza dell’apparire mostra qualche crepa.
ETT: Dai, su! Abbandona momentaneamente le tue divagazioni filosofiche ed inizia a raccontarmi in dettaglio come è andata questa nuova escursione in terra straniera.

LUIGI: Devo subito dichiararti che ero comandato a sorvegliare dodici apostoli.
ETT: Così pochi?
LUIGI: Avrei molto da dire a tal riguardo. Finirei però per perdermi in ulteriori riflessioni che mi allontanerebbero del raccontare i fatti della gita scolastica.

Per inciso vorrei giustificare questo basso numero di partecipanti tirando in ballo il costo del biglietto di partecipazione e di una inesistente politica di integrazione della vita scolastica con quella esterna all’aula.
ETT: Cioè?
LUIGI: Credo che i ragazzi vedono un sipario che si alza entrando nella scuola e che si chiude uscendo. Sentono la scuola come un mondo separato dal loro habitat. Molti vi entrano costretti e non vendono l’ora di uscirne. In questo senso, ad alcuni la gita scolastica può apparire un prolungamento (sebbene ludico) della vita scolastica.
Riprendendo il racconto, devo informarti che eravamo in quarantacinque: 42 studenti e 3 docenti.
Il destino è un abile architetto quando disegna l’intreccio caratteriale di più persone costrette a condividere tempi e spazi di esistenza.
Solo un grande stratega è capace di combinare in una miscela perfetta tre profili d’anima così diversi.
Una prof di religione, tutto cuore e sincerità, insieme ad un ingegnere tanto pratico quanto satirico, erano i miei due compagni e colleghi di viaggio.
Armati di tanta disponibilità e bendati ai rischi che portavano legati al collo, i tre tranquilli docenti accompagnatori si sono fatti trovare in una mattina di maggio all’aeroporto di Bari, pronti per volare con 42 giovincelli verso il cielo di Praga.
Le parole check-in suonavano di pratica spaziale per i neo passeggeri volanti. Le raccomandazioni fornite in partenza dagli organizzatori della gita risuonavano lontane e forse incomprensibili, fino al punto da ripensare alle dimensioni del bagaglio a mano o agli oggetti vietati da portare insieme quando il mezzo di trasporto è un aereo.

Ultimate le pratiche di rito e cioè la distribuzione dei biglietti d’aereo e la raccolta dei recapiti telefonici, la comitiva si avvia al gate, per superare la barriera dei controlli per poi entrare nella gabbia d’acciaio pressurizzata e pesante di svariate tonnellate.

(continua nella prossima pubblicazione)

 

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