mercoledì 2 luglio 2025

Lo schiaffo

 

Avevo 11 anni ed era il mio primo giorno di scuola, varcando il grande portone d'ingresso, l’euforia di alcuni compagni si contrapponeva ai musi lunghi degli altri. 

Ero un po' smarrito e un po' confuso. Cercai di seguire il flusso ragazzi più piccoli per capire dove dovevo andare. Per fortuna si avvicinò un collaboratore della scuola che mi indicò l’aula dove recarmi. 

Finalmente entrai nella mia aula. La mia atavica timidezza mi spinse a occupare l’ultimo banco della terza fila in prossimità della finestra. Rimasi fermo lì per tutto il tempo necessario affinché si ripristinasse l’ordine.   

Iniziai a guardarmi intorno e staccandomi dal clamore, osservai l’ambiente che avrebbe dovuto ospitarmi per tre anni.  L’aula era molto grande. Si presentava piena. Composta con quattro file di banchi di otto posti ciascuna. Di fronte c’era la cattedra, alta di trenta centimetri. Era una specie di piattaforma rumorosa sulla quale una grande scrivania la occupava completamente. 

Il professore, più in alto di tutti, da seduto, aveva la visione completa su tutta la stanza. Sui muri pendevano scolorite carte geografiche e incomprensibili disegni. Tutto lo scenario mi lanciava messaggi di austerità e di poca vicinanza umana. Per questo motivo, accusavo un senso di inadeguatezza alla responsabilità a cui ero stato chiamato.

Il ritorno alla realtà fu causato dall’ingresso del professore in aula. Mi parve come un uomo lontanissimo dal mio immaginario: piccolo di statura, zoppo e con la sua mano sinistra offesa stretta sul corpo.

Era il professore di italiano e latino. La classe silenziosa attese le sue parole, ma egli sembrava non curarsene. Pose le sue cose sulla cattedra e restò occupato tra le carte e registri.

Nell’attesa che la lezione iniziasse non sapevo come occupare il tempo. A dispetto della volontà di far subito amicizia, il posto accanto al mio non fu occupato. Avevo a disposizione tutto il banco per distribuire il mio materiale scolastico. 

Inevitabilmente finii per giocherellare con i miei oggetti. Di solito quando esco di casa non portavo nulla con me, però quel giorno avevo con me una piccola pallina di carta con cui usavo giocare nel colpire bersagli posti ad una certa distanza.

Ovviamente, non potevo giocare come facevo a casa, ma mi divertiva comunque sballottolarla tra le mani.

Improvvisamente il professore puntò lo sguardo su di me. Mi fece cenno da lontano di avvicinarmi. Riposi la pallina in tasca e mi presentai davanti a lui dal suo lato sinistro.

Il professore appariva calmo e credevo di non aver nessun motivo per cui preoccuparmi per quella convocazione alla cattedra.

Appena fu lì, lui mi chiese di spostarmi sul suo lato destro. Non capivo perché ma comunque ubbidii. Fermo alla sua destra attesi istruzioni. 

Mi chiese di avvicinarmi a lui e di togliermi gli occhiali. La situazione mi divenne imbarazzante anche perché togliendomi le lenti non ero più in grado di vedere bene. 

Pensai: “Probabilmente vuole vedermi bene in viso a causa di qualche somiglianza con un altro suo alunno”.

Mi sbagliavo di grosso!

Il professore con la sua unica mano funzionante mi mollò uno schiaffo così forte da farmi barcollare.

 Poi, senza perdere la sua flemma, aggiunse: “Dove credi di stare? Qui non sei a casa! Cestina ciò che hai messo in tasca e vai a posto.”

Muto e completamente disorientato, mi avviai al mio posto.

I miei genitori non hanno mai saputo nulla di questo episodio. Sono sicuro però che sarebbero stati d’accordo con il professore e che lo avrebbero ringraziato per avermi dato una lezione della quale mi sarei ricordato, come mi sono ricordato, per tutta la vita.

Da grande, sono diventato anch’io professore, ma è tutto cambiato. Non oso immaginare se con i miei discoli alunni avessi assunto lo stesso comportamento del mio antico professore. Lascio a voi immaginare che cosa sarebbe successo.

Oggi siamo sul polo opposto!

Meglio o peggio rispetto a ieri?


 


martedì 1 luglio 2025

Il più bravo della classe

 

Andrea era un ragazzo riservato, studioso. In tempi più recenti sarebbe stata la vittima ideale del bullismo. Invece, nella sua classe egli era stimato ed ammirato. Forse a causa della sua generosità; sempre disponibile ad aiutare tutti. Difatti, metteva disposizione della classe tutti gli esercizi di matematica e di inglese, svolti accuratamente. 

Durante ogni cambio d’ora, era ormai prassi vedere capannelli di giovanotti affannarsi intorno al suo banco intenti a copiare quegli esercizi non svolti per ozio o per le difficoltà incontrate durante il tentativo di svolgimento. I quaderni di Andrea erano Bibbie, sia per l’ordine della scrittura, sia per la correttezza delle soluzioni. 

I professori sapevano di questo stato di cose e quando lo sfortunato copiatore rivelava alla lavagna l’incoerenza con lo sviluppo presente sul quaderno, si capiva molto sull’origine della soluzione. Miserevolmente, Andrea veniva chiamato in causa a chiarire l’equivoco incorso.

Un giorno Francesco, uno studente non sempre puntuale nello studio ma abbastanza impertinente quando si “sentiva” investito dall’ingiustizia scolastica, fu interrogato dalla professoressa di Scienze.

I lenti movimenti per alzarsi dal banco e la triste maschera formatasi sul suo viso all’udire del suo cognome, già denunciavano una sicura impreparazione. 

La professoressa, conoscendo il carattere del ragazzo, l’eventuale cattiva valutazione, avrebbe esacerbato il suo sentimento. Decise di volgere a gioco l’interrogazione in corso.

-“Francesco, hai studiato?” Chiese, sorniona, la docente.

-“Professoressa, non sono riuscito a ripetere e ad essere sincero non ricordo molto bene gli argomenti studiati.”

-“Ho capito. In altre parole, non hai studiato!” subito chiarì la professoressa.

-“Mi dispiace che non mi crede. Ieri sera ho studiato la sua materia fino a tardi.” Cercò di giustificarsi il ragazzo.

-“Questa volta voglio crederti! Ti faccio una sola domanda e se mi rispondi correttamente eviterò di assegnarti il voto negativo.”

Il ragazzo annuì con la testa e si affidò alla Dea bendata per evitare guai maggiori. La professoressa chiese: “Dimmi quante sono le ossa del corpo umano?”.

Andrea entrò in riflessione soltanto per far scena. In realtà, era del tutto inimmaginabile che conoscesse la risposta. 

Al termine di un lungo silenzio, l’impertinenza venne fuori: “Professoressa, lei mi ha fatto una domanda difficile volutamente per punirmi! In questa classe nessuno è in grado di darle la risposta esatta!”

Francesco aveva appena terminata l’affermazione quando la professoressa, rivolgendosi ad Andrea, chiese: “Andrea, vuoi cortesemente rispondere alla domanda che ho posto a Francesco?”

Anche Andrea si alzò lentamente dal banco e si apprestava ad ammettere di non saper rispondere. 

In quel breve intervallo di tempo, Francesco, tradito dalla grande stima per l’impegno allo studio del suo compagno, intervenne bloccandolo nel rispondere: “Professoressa, può domandarlo a tutti ma non ad Andrea!” 

Così non si seppe mai che anche Andrea non sapeva dare la risposta attesa. 

Le attitudini del più bravo della classe avevano convinto anche i muri per quanto fosse sempre sempre preparato e disciplinato nello studio. 

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