Vivi come se dovessi morire domani. Impara come se dovessi vivere per sempre. (Gandhi)
domenica 27 novembre 2016
lunedì 31 ottobre 2016
Padroni della propria felicità
Mi deprimo quando nuvole di grigio si addensano sul mio orizzonte.
Poi, penso alle cose accadute ieri.
Non intendo il giorno prima!
Non intendo il giorno prima!
Nemmeno quelli di un mese fa.
Intendo tutti i giorni passati in cui ho avuto la possibilità di imparare e crescere.
Penso alle fatalità che potevano uccidermi.
Penso alle fatalità che potevano uccidermi.
Penso alle occasioni di cui ho approfittato.
Ricordo le tante situazioni difficili che il passato mi ha presentato,
Ricordo le tante situazioni difficili che il passato mi ha presentato,
ma che in qualche modo ho sopportato e superato.
Da sempre, il futuro mi sembrava promettente.
Tutto questo, ora, mi ricorda
Tutto questo, ora, mi ricorda
che sono un uomo capace e libero.
Il successo e la felicità sono dipesi soltanto da me stesso.
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I get discouraged now when there are clouds of gray,
until I think about the things that happened Yesterday.
I do not mean the day before or those of month ago,
until I think about the things that happened Yesterday.
I do not mean the day before or those of month ago,
but all the yesterdays in which I had the chance to grow.
I think of opportunities that I allowed to die,
I think of opportunities that I allowed to die,
and those I took advantage of before they passed me by.
And I remember that the past presented quite a plight
And I remember that the past presented quite a plight
but somehow I endure it and the future seemed all right.
And I remind myself that I am capable and free,
And I remind myself that I am capable and free,
and my success and happiness are really up to me.
lunedì 24 ottobre 2016
L'equilibrista (di Giovanna Sgherza)
Racconto scritto da Giovanna Sgherza.
Non avevo pianto.
Nulla. Nemmeno una lacrima.
Solo tanto sgomento quando il medico di guardia dell’ospedale mi aveva comunicato la morte di mio fratello.
Lo avrei odiato, se non fossi stato un medico anche io e quindi quasi abituato a convivere con la tragedia della morte.
Ma quando ci si trova “dall’altra parte” è completamente diverso: non vuoi crederci e ti interroghi se quell’uomo che indossa la divisa verde, con ancora la mascherina attaccata al collo, sia soltanto un folle e accanito incubo della tua vita o un guerriero che ha lottato infelicemente contro i mulini a vento..
Avevo guardato il collega e rivolto subito tristemente gli occhi verso l’assistente che mi avrebbe accompagnato a fare il riconoscimento ufficiale della salma.
Il vero dolore è arrivato dopo, quando ho dovuto raccogliere i suoi effetti personali, i suoi indumenti e i suoi libri e metterli via per cercare di cancellare la sua presenza in casa mia.
Ingenuità infantile la mia, o forse tentativo inconscio di nascondere e aggirare la dura verità….
Jenny mi era stata vicina in quei giorni terribili, pur sapendo che avevo bisogno di stare solo con me stesso e di metabolizzare il mio dolore.
Non avevamo quasi mai gli stessi turni in ospedale e, la mia attività di ricerca universitaria mi impegnava spesso nei pomeriggi quando lei invece non lavorava.
A volte compariva radiosa nel mio studio cercando di distrarmi e farmi sorridere, ma puntualmente si sedeva accanto a me e con la sua innata curiosità mi rivolgeva domande sulle mie ricerche, arricciando il naso quando le immagini erano disgustose.
Poi, quando il tramonto si presentava alla piccola finestra del mio studio, rimettevo in ordine i fogli che avevo sparso sulla mia scrivania, controllavo diligentemente che non ci fossero ancora download in corso sul mio computer e, sotto lo sguardo attento e sereno di Jenny indossavo la giacca per uscire e dedicarmi finalmente a lei.
Spesso dopo una breve passeggiata cenavamo fuori, in qualche trattoria lungo il fiume; ma nelle serate più fredde preferivamo rientrare in casa per starcene al calduccio dopo aver cucinato qualcosa insieme.
La mia vita scorreva così: un po’ noiosa, ripetitiva, senza slanci e senza sorrisi, come se qualcosa, dopo la morte di mio fratello, mi avesse trasformato in un automa con un cuore di diodi e metallo privo di qualsiasi sentimento.
Mi rendevo perfettamente conto che la mia resilienza poteva raggiungere a malapena il 10-15% di quanto un uomo possa possedere, e cercavo perciò di reagire positivamente solo nell’ambito lavorativo e professionale partecipando attivamente e proficuamente ai diversi ed interessanti convegni organizzati dalla fondazione di ricerca oncologica di cui ero, da diversi anni, consigliere ricercatore.
Forse un modo per riscattarmi e per pensare meno alla perdita di mio fratello? O forse un modo come un altro per evitare di affrontare i problemi quotidiani e la vita di coppia ormai stanca?
In ogni caso stare lontani per qualche giorno ci dava beneficio, perché al mio ritorno il nostro abbracciarci e respirarci era più intenso e sentito rispetto a quando ero partito.
Una notte ho fatto un sogno molto strano ma significativo.
Ho sognato mio fratello.
Non mi era mai capitato dal giorno dell’incidente ed ormai era trascorso quasi un anno.
Indossava giacca e pantaloni di colore nero, bellissimo ed elegante nella sua camicia bianca ma era scalzo e camminava su un cavo di metallo tra due dirupi non vicini tenendosi in equilibrio con un’asta flessibile.
Sotto di lui un baratro scuro e indecifrabile.
Io ero spaventatissimo, lo guardavo dal bordo della montagna e gli supplicavo di tornare indietro al sicuro, ma lui sorridendo continuava il suo percorso pericolosissimo con una tranquillità angelica che sembrava dirmi: “ non aver paura di camminare sul filo della vita, io sono tranquillo… Vedi?
Tu invece sei fermo lì che mi aspetti immobile e non hai il coraggio di cambiare e provare a vivere le tue emozioni….”
Mi svegliai di soprassalto, un po’ impaurito e un po’ meravigliato.
Jenny quella notte non era accanto a me perché aveva dormito a casa di una sua amica gravemente ammalata per restarle vicino.
Allora, sentendomi solo come non mai, mi alzai e mi avvicinai alla finestra da cui entrava la flebile luce della notte.
Istintivamente spostai la tenda e guardai fuori.
Un gatto bianco e nero era lì, di fronte a me, in perfetto equilibrio sul bordo della recinzione metallica del giardino e mi fissava ammutolito con i suoi occhi giallo-grano senza muoversi di un solo centimetro.
Non so quanto durò quello sguardo reciproco…certamente mi attraversò senza che me ne accorgessi.
Dopo, quando il gatto mi vide sorridere rincuorato, con un balzo lieve ed elegante fuggì via e in pochi attimi raggiunse il muretto dell’isolato adiacente al mio, scomparendo dalla mia vista.
Indossai il primo pullover che trovai in camera, presi le chiavi e uscii di corsa facendo le scale di corsa.
Il gatto probabilmente aveva attraversato il cortile adiacente e poi era tornato sulla strada dove c’era più luce ed era raggomitolato in un cantuccio accanto al contenitore della raccolta differenziata.
Mi avvicinai con cautela e lo accarezzai teneramente…
Soltanto allora sono riuscito a piangere.
E in quel momento avrei voluto abbracciare mio fratello e parlargli.
Avevo ritrovato l’amico a cui parlare e raccontare le mie paure e i miei progetti, con cui guardare le partite in tv, a cui dedicare un pomeriggio fuori dagli schemi in giro con la sua moto, a cui raccontare l’amore per la mia donna…
La sua assenza era rientrata nella mia vita diventando presenza costante e silente che mi fortificava in ogni momento della giornata e della mia esistenza, anche perché, il figlio che dopo quella notte io e Jenny abbiamo fortemente voluto, ora porta il suo nome.
martedì 6 settembre 2016
La buona scuola sta per iniziare.
Sono trascorsi soltanto vent’anni ma ho l’impressione che ne
siano passati cento.
Avevo pochi anni alle spalle della mia laurea, quando mi
presentai davanti alla figura istituzionale del Preside di una scuola.
Rigido, attento alle parole, lentamente pronunciate, mi preparavo alla missione di insegnante.
La mia giovane figura inspirava poca fiducia al composto capo
d’istituto.
Le mie capacità, o meglio, la mia preparazione poteva
garantire l’adempimento a cui ero chiamato?
Ero un giovane ingegnere con pochissima esperienza scolastica
e con il grande fascino di intraprendere la missione di insegnamento.
Mentre il preside mi parlava, nella mia mente, come onde, si
riversavano quelle emozioni che da studente immaginavo e che allora sperimentavo.
Dovevo però porre attenzione!
Sfidando quel turbinio
emotivo, ascoltavo:
“Lei, professore, avrà una classe quinta da condurre agli
esami!
Siamo certi di potercela fare?”
“Certamente, preside. Farò del mio meglio!”, rispettosamente,
mi affrettai a rispondere.
Questa scena, ancor limpida nella mia mente, ora stride con
una realtà molto lontana da quella che avrei potuto presumere.
Il preside, oggi, è un burocrate!
La didattica non ha più un
attento osservatore.
Il preside oggi è un “Dirigente”, un “Manager”.
I professori sono lavoratori da gestire e ottimizzare.
Gli
alunni sono merce da valorizzare.
Le attività o POF (piano dell’offerta
Formativa) sono pretesti pubblicitari per attirare nuove iscrizioni e di
conseguenze rimpinguare il budget economico e allargare lo staff degli
operatori.
La scuola si sta trasformando in un soggetto a cui applicare
le tecniche di marketing.
Neologismi si coniano per confondere insegnanti asettici e
sempre vessati da scarsa considerazione.
Che bella la parola “Bonus”! Peccato, poiché non ho ancora
capito a cosa si riferisce!
Forse è un meccanismo che premia i più volenterosi?
Ma per
far che? Come si stabilisce la buona scuola o il buon insegnamento se
nessuno entra in classe con l’insegnante, per capire come spiega o in che modo
trascina i suoi studenti in uno studio piacevole e in linea con i riferimenti
educativi?
Un tempo contava la storia di un insegnante, la continuità
del suo insegnamento, la celebrazione dei risultati.
Oggi si contano quanti alunni si evita di bocciare!
Oggi si inventano pratiche per giustificare esigenze di
alunni riottosi e assurde pretese di genitori.
Probabilmente, mi verrà un complesso di inferiorità se mi
renderò responsabile di una bocciatura.
Se gli alunni vengono bocciati cambiano scuola! E questo, è
un dramma e un danno!!
Un danno più grave di quello che procurerei se non facessi
nulla in classe!
Concludo manifestando un senso di colpa.
Può succedere che
per aver contribuito a bocciare qualche alunno, la scuola perda i numeri
sufficienti per disporre di un adeguato numero di lavoratori in segreteria!!
Il rischio di questa sciagura potete immaginarlo!
domenica 4 settembre 2016
Comico o idiota?
La libertà di pensiero è dura da difendere quando confligge con i fondamentali valori umani.
Non posso biasimare i Francesi per via della stupidità di qualche loro connazionale.
Io credo che ridere faccia bene.
Questa volta però, la vignetta non fa ridere!
Ci fa pensare fino a che punto si spuò essere idioti!
venerdì 26 agosto 2016
L'insegnante CLIL
Gli insegnanti CLIL sono in grado di:
- Identificare il contenuto appropriato da insegnare e individuare gli ostacoli all'apprendimento .
- Presentare i contenuti nelle diverse prospettive culturali.
- Mettere in atto strategie per sostenere l'apprendimento della lingua inglese attraverso i contenuti.
- Creare le opportunità di rafforzare l'apprendimento dei contenuti in lingua straniera.
- Applicare le strategie per promuovere il pensiero critico da parte degli studenti sui contenuti e lingua.
- Applicare le strategie per favorire negli studenti l'abitudine di collegare i nuovi apprendimento con la loro esperienza personale dentro e fuori l’ambiente scolastico.
- Promuovere la consapevolezza nello studente per l’uso della lingua inglese come processo di apprendimento.
- Descrivere come la prima lingua sia in grado di supportare l'apprendimento delle lingue aggiuntive.
- Modellare strategie per facilitare la transizione dall’insegnamento in italiano a quello in inglese.
- Elaborare e attuare strategie che tengano conto concetti chiave come (critica) del discorso, domini e registri, di base interpersonali, capacità di comunicazione, al fine di promuovere la lingua e l'apprendimento dei contenuti, così come lo sviluppo delle competenze di apprendimento.
- Descrivere l'implicazione di età per l'apprendimento delle lingue e l'uso.
- Collegare le questioni di consapevolezza linguistica per l'apprendimento di contenuti e cognizione.
- Sostenere gli allievi nell’uso della lingua inglese durante le lezioni di contenuto.
- Proporre strategie didattiche che tengano conto teoria costruttivista sociale, compreso forme esplorative e altre di discorso che promuovono l'insegnamento e l’ apprendimento attraverso il dialogo.
- Attingere alle conoscenze e teorie dai campi di apprendimento delle lingue e di proporre strategie didattiche e di apprendimento.
venerdì 19 agosto 2016
Povera umanità
Oggi su tutti i giornali gira questa foto!
Si coglie l'aspetto sensazionale per far leva
sull'aspetto emotivo dei lettori.
Un bambino sporco, spaventato, confuso, ferito, seduto su una poltroncina comoda, rossa,
pulita, in rigida posa fotografica.
Il contrasto è perfetto!
In questo modo si mostra tutta la debolezza dell'editoria e
contemporaneamente la subdola forza del Dio denaro.
E’ innegabile che l’interesse economico muove il mondo, soffocando il senso
umanitario e rilegandolo nei salotti della inutile morale.
Chi osserva non può evitare il senso di impotenza e commozione.
Per rimanere ottimisti su ciò che il futuro riservi all'umanità ... serve un po' di incoscenza.
martedì 16 agosto 2016
La passeggiata delle idee
Dipinto di Silla Campanini
Nella
vita nulla è chiaro, definito, stabile fino in fondo.
Qualsiasi cosa, materiale
o fantastica, è mutevole, esattamente come la nostra biologia.
Sembrerebbe che
tutto lo scibile umano sia contaminato dal concetto di invecchiamento.
Invecchiare
non significa diventare imbecilli e decrepiti, significa anche cambiamento
continuo.
Idee
ferme, bloccate dalle convinzioni o, ancor peggio, fissate da tabù ideologici,
diventano inevitabilmente idee “malate”.
Non
intendo affermare che dovremmo rinunciare alle certezze.
Dovremmo solo
considerarle dotate di un tempo vita!!
Esattamente quel tempo necessario che l’invecchiamento richiede.
Una
forma elegante di questo mio concetto si potrebbe esprimere con la parola “Rinnovamento”.
Rinnovarsi,
in pratica, significa sostituire vecchie idee a quelle nuove, semplicemente perché
il processo di invecchiamento ha avuto corso.
Non
so se invidiare o compatire coloro che non cambiano idea nel tempo.
Potrei invidiarli perché hanno trovato un modo
per non invecchiare e rimanere bloccati ad una certa età di pensiero.
D’altro verso, mi dispiacerebbe etichettarli come
stupidi o rinunciatari del bene più grande offerto all’essere umano: l’intelligenza.
Qualcuno
potrebbe capire che bisognerebbe rinunciare alla coerenza.
Vi
assicuro che non è così!
La
coerenza è ben altra cosa rispetto alla rigida volontà di affermare le proprie
idee ad ogni costo.
La
coerenza non è comandabile, è una semplice ed istintiva modalità di rispetto
delle proprie idee; cioè, di far seguire le azioni che le sostengono.
La coerenza
vive nell’idea e cambia padrone se questa fosse sostituita, ma i suoi servizi rimangono
gli stessi.
Concludendo,
le nostre idee passeggiano nel tempo, cambiano vestiti per adeguarsi al “look”
del momento ed infine, per esercitare i poveri, mortali, esseri umani, a pratiche divinatorie e quindi, a
comportarci come Dei.
martedì 12 luglio 2016
Esame di Stato 2016
La vita è una ripetizione di eventi interpretati da sentimenti mascherati con stati
d’animo volubili.
Non ci rendiamo conto, ma sono innumerevoli le azioni
ripetute che ci ritroviamo a compiere. Perfino le speranze entrano in questo
strano gioco.
Abbiamo preso la buona abitudine di rinnovarle in continuazione.
Per fortuna che non hanno scadenza, altrimenti saremmo stati
costretti al riciclo per non deturpare l’ambiente psicologico.
Se facessimo un conto sommario, sottraendo dal totale tempo
vita, quanto ne consumiamo a rifare le stesse cose, la durata della nostra
esistenza si ridurrebbe all’infanzia.
Forse questo è uno dei motivi per cui è
difficile crescere e diventare adulti ... in tutti i sensi.
L’esame di Stato è una delle occasioni in cui la monotonia
dell’essere prende il sopravvento.
In queste occasioni, una serie di azioni
formali si ripetono fino alla completa rassegnazione dell’intelligenza.
Ovviamente, il punto di vista in questione è quello di un docente
che non crede più sull’utilità dell’opera in cui si cimenta.
Non credo di sbagliarmi molto, e non è necessario essere
grandi osservatori per notare l’aria noiosa che si addensa intorno alla
commissione mentre è nel pieno svolgimento del suo mandato.
Se non avente ancora capito a che cosa mi riferisco, vi offro
un aiutino.
Ogni anno, alla fine di giugno, 8 o 9 persone si radunano per
giudicare la “maturità” di un gruppo di alunni.
Questi signori devono marcare con un voto la qualità di ogni
esaminando.
Si tratta di una specie di etichetta che i futuri maturandi si
porteranno al collo in ricordo di una esperienza quinquennale.
Ma non illudetevi, perché i poveri commissari non possono
smentire il “giudizio” espresso dal consiglio di classe. Questo è il biglietto da visita con il quale ogni studente si presenta agli
esami di stato.
Allora? Quale funzione hanno i commissari?
Se volete capirci qualcosa (di più o meno serio) dovreste
girovagare fra le carte ministeriali esplicative che giungono soltanto al
presidente di commissione.
Si tratta di un mondo di norme costruite per
disciplinare i possibili futuri ricorsi legali.
La vera realtà, invece, è possibile trovarla negli stati d’animo degli
alunni.
In quella riposa il lavoro dei docenti; qui ci sono i risultati
(positivi o negativi) di quei professori che hanno tentato di dare il meglio di
se stessi.
Certamente, i professori non lo avranno fatto per lo stipendio, né per paura di
un improbabile controllo e ancor meno, per un’ambizione riposta in altre
direzioni.
Gli studenti, per fortuna, sentono ancora l’importanza di
questa tappa della loro vita.
Quest’ardore, queste emozioni, sono i flutti di
vita che vengono inalati nell’entusiasmo calante dei commissari d’esame per
rimanere vivi intellettualmente e non abbandonarsi completamente al passo lento
della noia.
Per evitare di non aver chiaro in mente il senso
che mi coglie quando mi sento inutile, mi rileggo la definizione di noia:
“La noia
è uno stato di insoddisfazione, temporanea o duratura, nata dall'assenza di
azione, dall'ozio o dall'essere impegnato in un'attività sostenuta da stimoli
che si recepiscono come ripetitivi o monotoni o, comunque, contrari a quelli
che si reputano più confacenti alle proprie inclinazioni e capacità.
Quando la
noia assume le proporzioni di una sensazione più accentuata e dolorosa si parla
di tedio.”
Purtroppo, anche
quest’anno la pantomima degli esami di Stato si è ripetuta!
Non fraintendetemi però, non voglio trasmettere un messaggio
negativo, magari legato alla scarsa professionalità dei docenti.
L’intendimento
vuole muovere la coscienza per una presa di consapevolezza su un principio
d’esistenza che ritengo importante.
La natura umana se non riforma se stessa continuamente tende
a perdere quelle prerogative che le sono proprie.
Mi riferisco alla creatività,
alla gioia di esistere e in fondo, a quella sottile non dichiarata fede di voler
rappresentare la propria individualità in termini di unicità universale.
mercoledì 6 luglio 2016
Intrappolare i desideri
Capita
a tutti di racchiudere nel proprio animo un desiderio, di farlo rimanere sull’uscio
della propria casa senza aprirgli la porta.
Tanti
saranno i motivi per questo blocco.
Paure inconfessate legate ad antichi
insuccessi o frustrazioni irrigidiscono le decisioni e votano all’immobilità.
Il
tempo è un medico condotto che bussa a porte con serrature arrugginite.
Allora,
giunge il momento in cui queste pesanti porte rumorosamente si aprono.
Inevitabilmente,
si ritrovano quegli antichi desideri invecchiati, senza brio, capaci soltanto
di evocare rammarico.
Al
termine di un lungo film si conosce la trama.
Quale
sarebbe stata la trama, se fosse stata scritta da un desiderio?
Una
vera vita vissuta!
Probabilmente,
è un’ottima chiave di lettura della vita, se si usassero meno verbi al
condizionale a vantaggio di quelli al presente!
Un
ottimo stratagemma per intrappolare il desiderio nella realtà!
martedì 5 luglio 2016
Quando a morire è una Lingua
Sul nostro pianeta si parlano
circa 6.800 lingue. Ogni quindici giorni ne spariscono due e con esse muoiono
antiche culture, usi, costumi, tradizioni, leggende, riti, medicine naturali.
Entro il 2100, il 90 per cento di
tutti gli idiomi umani, sparirà per sempre. Le previsioni più ottimistiche
dicono che soltanto la metà, sarà estinta. Quelle ormai irrimediabilmente
perdute, secondo i calcoli dei linguisti, potrebbero essere tra quattro e nove
mila.
Il 96% della popolazione mondiale
utilizza soprattutto quattro lingue: il cinese mandarino, parlato da un
miliardo di persone, come l’inglese, l’Hindi/Urdu (900 milioni) e lo spagnolo
(450), seguito da russo, arabo, bengali, portoghese, giapponese, francese,
tedesco, italiano. Il restante quattro per cento parla tutte le altre.
I ricercatori escludono dal
rischio d’estinzione soltanto 600 lingue nel mondo, perché sono ancora
insegnate ai bambini. In Canada e Stati Uniti, il 90% delle lingue native, non
è appreso dalle nuove generazioni.
Su 300 lingue parlate sul
territorio americano in età colombiana, soltanto dieci sono ancora utilizzate
da gruppi superiori ai diecimila individui. In Australia si stanno estinguendo il
90% delle 250 lingue aborigene.
I quattro quinti degli idiomi
sono usati da gruppi inferiori ai diecimila individui. Nell’area amazzonica
peruviana soltanto cinque persone parlano ancora il Chamicuro.
Gli scienziati stimano che, in
Africa su un patrimonio di 1.400 lingue 54 sono ormai estinte, 116 sono vicine
all’estinzione, 250 sono minacciate e 600 in forte declino, ma in Sud Africa le
lingue ufficiali sono solo l’inglese l’africaans.
In Asia meno di diecimila persone
parlano circa la metà delle lingue autoctone. Nel ashmir il Brokshat è parlato
da tremila persone, il burmese da 250, mentre nelle Filippine poche famiglie
parlano ancora l’Arta. Il 90% degli idiomi umani non è presente su Internet.
I contenuti della Rete sono per
il 68,4% in inglese; seguito dal giapponese con il 5,9%, dal tedesco con il
5,8% e dal cinese con il 3,9%.
L’80% dei linguaggi esistenti non
ha una forma scritta e la metà di essi è concentrata in otto paesi: Papua Nuova
Guinea (832), Indonesia (731), Nigeria (515), India (400), Messico (295),
Camerun (286), Australia (268) e Brasile (234).
Le regioni con la più alta
biodiversità sono quelle più ricche anche dal punto di vista linguistico: le
lingue parlate nelle isole, ad esempio, si sono sviluppate, come le specie
viventi, in modo unico e completamente autonomo. Gli abitanti del piccolo
Arcipelago di Vanuatu, nel Pacifico, parlano ben 110 lingue.
La perdita di lingue uniche,
nella loro identità culturale e nei loro contenuti storici, (l’Igo, parlato da
seimila persone nel Togo meridionale, molto probabilmente conserva tracce della
migrazione africana occidentale) rende più difficile la nostra comprensione
della diversità biologica.
I linguaggi utilizzati nelle
foreste tropicali o sulle isole, sono notoriamente molto ricchi di vocaboli
specifici per la descrizione della natura. Gli hawaiani chiamano i pesci con
nomi che indicano il periodo di riproduzione, gli usi medicinali e i metodi per
catturarli.
In Papua Nuova Guinea, le lingue
locali comprendono centinaia di nomi diversi per ogni specie di volatile
presente sulle isole, mentre il Pidgin, (un misto anglo-cinese diffuso in
estremo oriente) ne comprende al massimo due.
Molti ricercatori studiano gli
elementi strutturali della grammatica e del vocabolario, per capire se alcune regole
fondamentali del linguaggio, abbiano valenza mondiale e se è possibile trovare
un riscontro fisico nella struttura del cervello umano.
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