DENTRO LE MURA


 

Il canto di grilli e cicale che dà ritmo e tono all'estate, marcando come un metronomo   l'alternarsi  tra giorno e notte,  afa e frescura,  luce abbagliante e notti stellate, penetrava insistente anche nella stanza di 16 metri quadrati che Francesco occupava già da qualche mese. E insieme a quel canto, l’odore della pioggia, il cosiddetto “petricore”.

Quando viveva a casa sua gli piaceva attendere quel profumo mentre il cielo si faceva più grigio e la mamma correva a ritirare i panni alle finestre.

Francesco non conosceva quel vocabolo prettamente scientifico, ma si divertiva a indovinare l’istante preciso in cui le prime gocce toccavano la terra arsa, sprigionando quell’odore particolare un po’ pungente spesso anticamera di un forte temporale.

Il cielo piange, forse anche lui è triste come me”, pensava tra sè.

Aveva avuto un’infanzia dolorosa e sacrificata, e si era sempre sentito diverso dai suoi coetanei che dedicavano molto tempo al gioco e allo studio.

Purtroppo non poteva essere come loro. Aveva il compito di badare alla nonna ammalata e allettata in casa, e quando la mamma era fuori per qualche piccolo lavoretto toccava a lui prendersi cura anche di suo fratello più piccolo.

Era cresciuto in fretta Francesco, in una dimora sbiadita dalle intemperie, con i muri scrostati dentro e fuori e finestre mezze chiuse anche in estate, dimora che appariva abitata soltanto grazie ai pochi panni appesi ad asciugare.

L’unica persona estranea sempre accolta in quella casa era l’assistente sociale, inviata periodicamente dall’amministrazione comunale,  per verificare le condizioni di vita  e valutare se continuare ad elargire i buoni pasto destinati alle famiglie meno abbienti.

Sua madre ci teneva molto a non perdere quel sussidio economico e con il volto un po’ rugoso, smunto e spesso stanco, che faceva trasparire un’età indecifrabile, con i capelli sempre in disordine, apriva la porta malandata alla donna sfoderando un mesto sorriso di riconoscenza.

A volte le mostrava la dispensa vuota, il mobilio pulito anche se malconcio, che conteneva all’interno pochi oggetti e pochi indumenti, e mentre cercava di decifrare l’opuscolo informativo ricevuto poco prima, le raccontava tutte le difficoltà della loro vita quotidiana, di figli sempre affamati, della nonna anziana da accudire  o del marito andato via di casa e mai più tornato.

Era una donna ossuta sua madre, consumata dalle privazioni, delusa dalla vita e dalla famiglia, vestita male e sempre infreddolita e guardava con occhi bramosi gli effetti personali di quella elegante signora: la  cartella, il cappotto, gli orecchini, la borsa; li scrutava come se non avesse mai visto oggetti simili.

Francesco non approvava l’atteggiamento di sua madre durante quelle brevi visite e talvolta si sentiva così osservato e quasi privato della sua dignità tanto da voler scappare via.

Avrebbe voluto gridare a sua madre di non accettare quel sostentamento perché voleva essere lui a provvedere alla famiglia.

Ma essendo ancora in età scolare non poteva farlo. Doveva  completare l’istruzione obbligatoria e poi finalmente avrebbe cominciato a lavorare. Era una  donna umile sua madre, ma educata e riconoscente.

Nonostante tutto a Francesco faceva tenerezza quando, invitando a sedere la donna ben vestita, cercava la sedia più nuova e pulita della stanza, o quando a tutti i costi voleva prepararle il caffè come segno di rispettosa ospitalità.

Dottorè, oggi deve accettare per forza. Altrimenti di qua io non la faccio uscire” – aveva esclamato un giorno determinata più che mai.

Insisto anche perché oggi ci ha portato per la quinta volta un pacco con tante provviste alimentari e la nostra dispensa non è più vuota. Dobbiamo festeggiare. Un caffè è il minimo che io possa offrirvi” aveva aggiunto mentre la signora tirava fuori dalla borsa un astuccio di pennarelli colorati regalandolo sorridendo al più piccolo della famiglia.

Qualche anno dopo, tutto era cambiato: la nonna era morta e la mamma attraversava un periodo di profonda depressione, cominciando spesso anche a bere.

Francesco ormai era più grande e in estate aveva iniziato a lavorare come apprendista presso una falegnameria, portando a casa una discreta paga ogni sabato sera.

L’assistente sociale aveva diradato i sopralluoghi e il sussidio comunale era diventato purtroppo solo un ricordo.

Tornato dal lavoro aiutava suo fratello a preparare la cena e a sistemare casa, perché ormai sua madre non solo non voleva farlo ma probabilmente non ne era più capace.

Spesso, con le lacrime agli occhi e un disperato impeto di rabbia, Francesco pensava che la loro vita era maledettamente imprigionata in quelle mura intrise di povertà, in una gabbia con sbarre invisibili dalla quale non poter uscire.

E allora contava i minuti per  tornare al più presto nella falegnameria e lasciarsi quasi abbracciare dal lavoro e avvolgere dalla sensazione di poter sconfiggere quella tristezza.

Qualcosa giorno dopo giorno doveva prima o poi cambiare. Non poteva essere sempre notte fonda, pensava. L’alba prima o poi sarebbe arrivata.

In quella stanza di 16 metri quadrati, dentro le mura della Casa Circondariale di Trani, la mancanza dell’odore del legno era l’unica cosa a cui Francesco non si era ancora abituato.

La vita dietro le sbarre non lo aveva mai spaventato. Si era subito adeguato alla routine quotidiana che un carcere minorile impone ed era felice di poter riprendere sia le attività scolastiche che quelle ricreative concesse ogni tanto nelle ore pomeridiane per favorire la socializzazione.

Si era molto affezionato al compagno di “stanza”, un sedicenne più allegro e ottimista di lui che compensava le sue malinconie e le sue frustrazioni e lo invogliava divertito a scrivere semplici canzoni rap per esorcizzare le ansie dell’incerto futuro.

Finalmente poteva avere un vero amico, un suo spazio da gestire,  poteva fare attività di squadra senza essere troppo competitivo,  poteva contare sull’altro, prendere coscienza che il mondo non è così oscuro come aveva sempre pensato, ma un posto bello da condividere con le persone giuste.

Eppure in quella “stanza” ci era entrato solo per aver difeso sua madre ...

Quel giorno, rientrando un po’ prima del solito dopo il lavoro, aveva incontrato suo fratello per strada con un amico e si era affrettato verso casa pensando che la mamma potesse avere bisogno di lui.

Invece la mamma non era sola. Un losco individuo con le braccia tatuate le stava insegnando a prepararsi una dose di chissà quale sostanza stupefacente.

La sorpresa, il disgusto e l’orrore prevalsero sulla razionalità e Francesco, non visto da entrambi al suo arrivo, preso d’impulso un bastone di legno che si trovava in cucina, cominciò a picchiare quasi selvaggiamente l’uomo alle spalle finché si accasciò sul pavimento privo di sensi, ponendo fine a quella rabbia.

Fino a quel giorno Francesco non aveva mai mostrato alcun segno di aggressività: la vita è strana, è folle; lo aveva messo a dura prova negli anni dell’infanzia e dell’adolescenza con mille difficoltà fino a portarlo all’esasperazione.

E per la prima volta Francesco aveva pianto.

Per giorni interi.

Nell’auto della Polizia, al Commissariato, mentre gli prendevano le impronte digitali, quando era entrato nella cella, di notte, di giorno, in solitudine o in compagnia.

Le lacrime erano salate e Francesco non lo sapeva. Non sapeva neppure che forse quel gesto di inaudita violenza avrebbe salvato sua madre, perché dopo l’aggressione a quell’uomo i responsabili dei Servizi Sociali avevano accompagnato la donna in un centro di recupero per alcolizzati, dove poteva essere assistita e curata da personale esperto.

Qualche giorno dopo l’arresto era stata proprio l’assistente sociale che assegnava i buoni pasto a presentarsi in  carcere con un giovane avvocato nominato d’ufficio.

Gli aveva sorriso dicendogli che era cresciuto molto e che suo fratello era stato accolto amorevolmente in una casa-famiglia.

L’avvocato fu abbastanza ottimista sul processo, anche se la giustizia italiana è sempre un po’ lenta ...

Non devi preoccuparti, hai agito per difendere tua madre. Tutto si risolverà per il meglio e quando uscirai da qui ti prometto di trovare il lavoro che vorresti svolgere”, le disse la donna ben vestita tenendogli strette le mani per rincuorarlo.

Francesco le sorrise e serenamente rispose: “Grazie dottoressa, grazie avvocato per prendervi cura di me. Qui dentro mi sto impegnando molto nello studio e farò del mio meglio per ottenere la buona condotta”.

Salutò educatamente e, accompagnato dalla guardia, imboccò il corridoio che conduceva alle celle.

Un ragazzo come tanti: spalle robuste e andatura svelta di chi vorrebbe andare incontro al futuro.

Dentro le mura, era molto tranquillo, sentiva di aver trovato la sua dimensione.

Le vere sbarre erano fuori. 

Nel quartiere prosciugato dalle privazioni e dalla povertà, nella casa fatiscente e sventurata, in una società che non ti accoglie, non ti capisce e senza volerlo ti distrugge e ti costringe a non essere te stesso.

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