Viviamo in tempi paradossali. Non c'è mai stato così tanto cambiamento e incertezza nel mondo. Eppure, all'interno delle nostre bolle informative curate algoritmicamente, molte persone si aggrappano a convinzioni e credenze solide. Il dibattito pubblico è dominato da fedeltà tribali a fatti alternativi e dubbi, certezze inflessibili e una profonda avversione all'esame delle nostre stesse convinzioni.
Nella politica e negli ecosistemi dei social media, la verità sembra non essere più vincolata dalla realtà empirica. Il comfort dell'identità algoritmica soddisfa il desiderio di falsità rassicuranti e bugie piacevoli. Navighiamo in un mondo in cui realtà e finzione sono intercambiabili. I fatti si dissolvono in un mare di opinioni, prospettive e informazioni confuse. Tutti abbiamo la nostra verità, indipendentemente da quanto divergano le nostre opinioni e argomentazioni. La verità è diventata un pezzo di sapone, inseguito da mani bagnate, soggetto a infinite interpretazioni all'interno di una serie infinita di contesti.
Tuttavia, il fatto che il sistema contestuale stia cambiando non significa che non sia possibile stabilire un significato, che la verità non esista o che i contesti non rimangano fermi abbastanza a lungo da poter esprimere un semplice concetto. Ma allora, cosa rimane come verità?
A differenza della maggior parte dei opinionisti di oggi, i filosofi del XX secolo hanno imparato a esercitare una notevole cautela quando si trattava di considerare domande come, ad esempio, “Che cos'è la libertà?”, “Che cos'è un fatto?”, “Che cos'è un numero?” o, in questo caso, “Che cos'è la verità?”. Piuttosto che rispondere direttamente, hanno affrontato la questione gradualmente, avvicinandosi di soppiatto e confondendo le acque fino a trovare una risposta.
Oscar Wilde semplificherebbe quanto sopra: “La verità è raramente pura e mai semplice.”
La verità è un concetto che non può essere isolato dalle sue dimensioni oggettive, soggettive e intersoggettive, né dagli stadi evolutivi ontogenetici e filogenetici in cui è inserito.
Internet è spesso metaforicamente paragonato a un cervello globale, aperto e inclusivo di tutti. Tuttavia, il problema è che mentre il cervello è globale, le menti che lo utilizzano lo sono sempre meno. La natura di quell'ambiente informativo è digitale: 0 o 1, o questo o quello, clicca qui o là, scegli questo o quello (...). Questa forma di pensiero binario incoraggia una semplificazione cognitiva della realtà che assomiglia alle fasi inverse dello sviluppo infantile.
Il panorama mediatico contemporaneo, frammentato, cura le verità che un numero crescente di cittadini vuole e ama credere, e corrode la razionalizzazione (la differenziazione dei regni della conoscenza) della società in mondi mitici, sincretici, in cui la coerenza narrativa conta più dei vincoli empirici imposti dalla concezione razionale della realtà.
J.F. Kennedy una volta osservò che “Il grande nemico della verità molto spesso non è la menzogna, deliberata, artificiosa e disonesta, ma il mito, persistente, persuasivo e irrealistico”.
Perché, allora, così tanti cittadini vogliono credere alle falsità, o più precisamente, perché si rifugiano nel mito, nella negazione della realtà, atrofizzati in un rigido pensiero binario (insieme alla proiezione e ad altri meccanismi di difesa)?
Erich Fromm concepirebbe questa tendenza come una regressione patologica al servizio dell'ego a livello sociale, non come una ricaduta in abitudini infantili, ma come uno sforzo per mantenere un fragile senso di identità e controllo; per sfuggire all'ansia esistenziale a costo della verità, un'ansia che affonda le sue radici nella crescente incertezza economica, nell'aumento dei costi e in un progressivo e strisciante declino della qualità della vita.
I social media intensificano questa tempesta perfetta di forze psicologiche, sociologiche, tecnologiche ed economiche, agendo come una forma culturale di regressione, una patologia che riporta la “verità” alle sue precedenti identità egocentriche ed etnocentriche, che ora travolgono la rete informativa della società postmoderna.
Rimane la domanda su cosa si possa fare.
Voltaire lo esprimerebbe in questo modo: “Pensate con la vostra testa e lasciate che anche gli altri godano del privilegio di farlo”.
Iniziate da voi stessi. Pensate. Non dobbiamo smettere di ragionare e continuare a pensare come possiamo. Pensare è un'attività intima, evocativa, esistenziale, in cui le libertà di cui godiamo hanno radici profonde. Pensare è quindi una misura di responsabilità e, di conseguenza, un atto di liberazione.
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